Scende la sera, immobili sono i prati. Il gorgogliare del ruscello assetato silente tutto il giorno si leva di nuovo. Abbandonata è la quasi falciata pianura, silenziose le stoppie..........E lontano sul puro orizzonte vedi pulsante per la prima stella il liquido cielo sopra la collina.

giovedì 3 maggio 2012

Sono sempre più stupita dalle malformazioni sentimentali che superano quelle fisiche. Non ci sono protesi per aggiustarle, men che meno personalizzate e leggere, capaci di far riprendere il cammino a qualsiasi rapporto umano. Ho visto segare arti, letteralmente segarli, in sala operatoria, a donne anziane e giovani. Non sapevo allora che l'arto tagliato andava messo in un sacco speciale ed inviato all'inceneritore come gli altri rifiuti speciali. Il lavoro paziente del chirurgo per ricucire tutti i vasi e sistemare la pelle sotto il ginocchio come fosse un orlo da rifinire, era una meraviglia per me che amavo la chirurgia e le sue implicazioni nel rinnovare sia la qualità che la durata della vita di un essere umano. Certo non potevo scendere in dettagli da far svenire o vomitare i più sensibili ma tentavo comunque di far comprendere come il nostro corpo si possa aggiustare mentre l'anima è meno disponibile a ricevere simili interventi. Ci sono medici che usano la parole, altri i farmaci, altri ancora i fiori e le preghiere, la meditazione ed il training autogeno, ognuno trova medicamenti e terapie adatte ed efficaci a suo dire. Tuttavia non è come ricucire una gamba o l'addome ferito da un manubrio di una motocicletta, con l'anima si deve essere più accorti sia nel curarla che nell'evitare di danneggiarla. Ho visto una madre trascorrere notti insonni a parlare alla figlia per farla uscire da uno stato di torpore apparente dovuto a un dolore talmente acuto da paralizzare perfino le sue funzioni vitali. Con quelle parole, quei ricordi, quelle carezze, con racconti e aneddoti, con una pazienza infinita, risvegliò da quel torpore mortale la ragazza. Gli analisti di ogni scuola avrebbero pagato qualsiasi cosa per conoscere il detto ed il non detto di quella terapia che tale non sapeva neppure di esserlo. Ho visto la tenacia dell'amore non cedere di fronte all'evidenza della morte, annunciata da odori e rantolii, ho visto parlare persone con i propri cari perfino dopo il decesso, non coscienti oppure talmente sicuri della vita che scorreva ancora nelle loro vene da non immaginare che quella stessa corrente potesse interrompersi nei vasi sanguigni di coloro che amavano. Negavano l'evidenza a se stessi e doverli allontanare da quel letto per registrare legalmente i dati del decesso era faticoso ed avvilente. Dover aprire gli occhi a chi gli occhi non cessava di vederli aperti, chiuderli a coloro che non li avrebbero più aperti, quella era la parte più difficile del mio "lavoro". Una notte ho perfino sbagliato a definire il rapporto di parentela dando inizio ad una serie di equivoci da commedia dell'arte. Ho fatto le condoglianze alla moglie del defunto definendola madre, non contenta quando mi ha corretto senza precisare il suo ruolo, ho continuato definendola sorella. Tale era il suo dolore che non mi ha investito ne insultato e da allora mi sono guardata bene dal definire cosa fossero o non fossero i parenti dei pazienti deceduti, chiamandoli semplicemente: "Lui" o "Lei". Un padre, non lo dimenticherò mai: alto un metro e novanta, magrissimo, sembrava una canna mossa dal vento del dolore, pronta a piegarsi ed a spezzarsi. Parlava con la figlia, appena deceduta, come fosse pronta a replicare, usava un tono dimesso ed è riuscito anche a spaventarmi, temevo che morisse di infarto per il dolore provato. Non fumo ne bevo caffè, ma quella notte ho preparato una tazza di caffè per quell'uomo e gli ho chiesto se voleva fumare chiedendo ad un mio collega, allibito, di consegnarmi il suo pacchetto di sigarette e l'accendino. Ha bevuto volentieri il caffè, non era un fumatore. Ho smesso da tempo di lavorare in quel reparto, l'ultima volta che ho trascorso una notte con una paziente in fin di vita aiutandola a sedersi ed a respirare per 10 ore consecutive, aiutata sia dalla madre che dalla sorella oltre che da un collega, al mattino, smontante notte, mentre lei moriva io rimanevo incinta. Ho cambiato subito reparto, agli infettivi non fanno lavorare le donne in gravidanza. Non c'è morte ch'io non abbia vissuto privandola di quel peso greve e colmo di significati più o meno religiosi che la mia assistenza non poteva contemplare, perchè non utili ne necessari. Bastava esserci, donare dignità, esserci con tutta me stessa, per accompagnarli anche solo con una stretta di mano od una carezza, un camice pulito od il viso rinfrescato, in quel viaggio che comprende il primo ed il nostro ultimo respiro; a me era riservata la cura e l'assistenza dell'ultimo! Quando affermo che non temo la morte ma solo le complicazioni più o meno dolorose di quegli ultimi istanti,non è un modo di dire o di apparire coraggiosa. C'è un verso di John Donne che dice: " ....e morte, sarai tu a morire" So cosa vuol dire, ed il mio lavoro mi ha donato proprio la comprensione di quel verso con la pratica e la quotidiana testimonianza di quel momento senza il quale nulla avrebbe senso e stupore infinito, men che meno tutto ciò che lo precede! E qualsiasi cosa ci sia ad attenderci, il nulla od il tutto, è un momento del viaggio imperdibile, nel senso stretto della parola. Un momento da non identificare con immagini lugubri, teschi, femori e falci per esempio, oppure evanescenti e nebulose iconografie che sono solo interpretazioni e non hanno attinenza con la realtà. Riporto delle immagini dal cimitero del Pere Lachaise a Parigi, in quelle mi riconosco ed ognuno di noi ha le sue!

Nessun commento:

Posta un commento