Scende la sera, immobili sono i prati. Il gorgogliare del ruscello assetato silente tutto il giorno si leva di nuovo. Abbandonata è la quasi falciata pianura, silenziose le stoppie..........E lontano sul puro orizzonte vedi pulsante per la prima stella il liquido cielo sopra la collina.

venerdì 28 gennaio 2011

Eleonora


Natale 1200, un inverno mitigato dalla corrente atlantica: la donna ottantenne che, protetta da un manto di vaio e avvolta in un velo, esce dal palazzo ducale di Bordeaux e sale a cavallo si accinge a un faticoso viaggio lungo la costa fino ai

Poesia, pagine tratte dalla Bibbia opera letteraria oltre che religiosa




C'È UN TEMPO PER OGNI COSA (QO 3,1-15)



Priotto M.

Quella che Qohelet ci offre in questo brano è una stupenda meditazione poetica sul tempo dell’uomo, su questo mistero che accompagna l’esistenza umana dal suo primo apparire nel mondo fino alla morte. In questa rassegna, sfilano i tempi dell’uomo con un ritmo implacabile e inarrestabile, ma anche monotono e apparentemente predeterminato; eppure su di essi si leva la domanda radicale di senso da parte del nostro saggio, portavoce di un’umanità inquieta e in cerca di senso. Una pagina dunque di straordinaria potenza, quanto mai moderna, che ci interroga e interpella[1].



Contesto e struttura del testo

I primi quindici versetti del c. 3 costituiscono una chiara unità letteraria, preceduta da una breve riflessione sulla gioia, la prima che troviamo nel libro (2,24-26), e seguita da una considerazione sull’ingiustizia e sulla sorte degli uomini, comune a quella delle bestie (3,16-22). Nel contesto della prima parte del libro (1,2-3,15) il nostro passo costituisce la conclusione che giunge dopo l’introduzione (1,1-2), il poema sulla natura e sull’uomo (1,4-11) e la lunga sezione regale (1,12-2,26).

L’unità che vogliamo studiare, Qo 3,1-15, è a sua volta chiaramente articolata in due sezioni: il poema di 3,1-9 e la riflessione di 3,10-15. La forma del primo gli conferisce una caratteristica e un’autonomia propria, inconfondibile; la riflessione seguente (vv. 10-15) è tuttavia strettamente congiunta, in quanto ne è il commento.



Il poema del tempo (3,1-9)

L’articolazione del poema è semplice: il v. 1 introduce il tema del tempo dell’uomo, che viene illustrato nei vv. 2-8; la domanda del v. 9 costituisce la conclusione del poema e introduce allo stesso tempo la riflessione seguente dei vv. 10-15.§

Il poema vero e proprio (vv. 2-8) è costituito da quattordici antitesi o, se si vuole, da sette coppie di antitesi che intendono abbracciare idealmente fin dalla prima battuta tutta l’esistenza dell’uomo, dalla nascita alla morte, e le esperienze più significative della vita, sia positive che negative. È evidente il valore simbolico del numero 7, e dei suoi multipli 14 e 28. Questa totalità dell’esistenza è vista sotto il profilo del tempo, il cui termine (in ebraico ‘et) ricorre significativamente ventotto volte, due volte per ogni antitesi; è l’insieme di questi tempi che costituisce la totalità dell’esistenza umana. Lo schema non è così rigido, come potrebbe sembrare a prima vista, ma il simbolismo del numero 7, coi suoi multipli 14 e 28, e del numero 4 (4 x 7 = 28) conferisce al poema una sensazione di pienezza, di totalità, di ordine e di perfezione[2].



C’è un tempo per ogni cosa

Per ogni cosa c’è il suo momento,

il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole (Qo 3,1)

Questo versetto introduttivo espone la tesi dell’intero poema, sottolineando in particolare tre aspetti: l’idea del tempo, l’idea del tutto e l’ambito della riflessione di Qohelet. Il termine «momento» (in ebraico zeman) è praticamente sinonimo del secondo termine «tempo» (‘et) e quest’ultimo non significa il tempo indeterminato e duraturo, bensì un tempo determinato, adatto e opportuno per qualche cosa. Si tratta di un vocabolo molto amato dal nostro saggio, che lo usa infatti per ben quaranta volte nel suo libretto.

La duplice ripetizione «ogni cosa» e «ogni faccenda» indica che nulla si sottrae a questa constatazione; anche se l’elenco seguente non è esaustivo, per ogni evenienza della vita, positiva o negativa, c’è un tempo favorevole e opportuno.

È importante però sottolineare che questa totalità è intesa nel contesto di un ambito ben preciso: «Sotto il sole». È questa un’espressione caratteristica di Qohelet per indicare l’ambito vitale dell’uomo su questa terra; indica, infatti, sia lo spazio geografico della terra in cui l’uomo abita, sia lo spazio temporale della vita umana[3]. Dunque l’ambito di indagine di Qohelet è questa terra e questa storia, cioè l’orizzonte terreno. E sopra il sole? Il saggio non si pone per il momento una tale domanda.

Che vi sia per ogni cosa ed evenienza un tempo opportuno è un pensiero noto alla cultura del mondo antico, sia mediorientale che greca[4]; così anche nella tradizione d’Israele esso rappresenta una convinzione sicura (cf. Gb 5,26; Ger 8,7; Pr 15,23; Is 28,23-29). Qohelet apparentemente riprende questa tradizione per condividerla, in realtà per criticarla, come apparirà dai vv. 10-15.

I tempi dell’uomo

Non pare che ci sia un ordine preciso in questo elenco di attività, ad eccezione forse delle due coppie di inizio e di conclusione; né l’elenco è esauriente. Il saggio intende piuttosto offrire esempi significativi di situazioni esistenziali per evidenziare che esistono momenti opportuni per ogni cosa.



2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per gemere e un tempo per ballare.

5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace (Qo 3,2-8).

La prima coppia è significativa per la sua valenza totalizzante, abbraccia infatti le estremità della vita, dal suo apparire alla sua scomparsa: c’è un tempo per generare[5] e un tempo per morire. È questo il significato della coppia, non tanto un’antitesi tra vita e morte, quanto piuttosto la sottolineatura dell’ambito dell’esistenza umana. L’uomo può interpretare la generazione e la morte come antitetiche; Qohelet si limita a osservare che due momenti significativi aprono e chiudono la vita. In senso metaforico l’attività del piantare e dello sradicare una pianta richiama ancora quanto detto a proposito del generare e del morire. Non tutti i tempi sono validi, perché vita e morte sfuggono a logiche deterministiche.

Dall’ambiente idilliaco e rurale l’autore passa bruscamente al dramma di una storia percorsa dalla violenza sulle persone; l’ombra di Caino si allunga sino ai giorni nostri, confrontandoci con tempi di distruzione e di morte. Qohelet non è pessimista, ma prende atto di una realtà, che tuttavia accanto alla distruzione offre anche la testimonianza della cura del ferito e della sua guarigione. Questa antitesi fra uccisione e guarigione divide gli uomini e i tempi, ma è interna anche a una stessa esistenza, perché a volte l’uomo che uccide e ferisce è anche colui che cura le ferite e guarisce. In coppia con la precedente antitesi si colloca l’immagine seguente del demolire e del costruire. Se la guerra comporta distruzione, l’impegno di guarigione evidenzia la ricostruzione.

Le lacrime e il riso, il lamento e la danza, definiscono i giorni dell’uomo, che in tal modo manifesta esteriormente la sua vita interiore caratterizzata dalla gioia e dalla sofferenza. Non esiste una vita soltanto felice o soltanto triste. Perché avvenga così, sfugge all’uomo; per adesso Qohelet si limita a constatare.

L’interpretazione del v. 5a («Un tempo per gettar sassi, un tempo per raccoglierli») è molto controversa. Riteniamo che il significato più naturale sia quello relativo al lavoro dei campi: il gettare i sassi evocherebbe il gesto ostile di chi vuol inaridire il campo di un nemico scaricandovi pietrisco (cf. 2Re 3,19); il raccogliere i sassi alluderebbe invece al paziente lavoro del contadino che, per poterlo coltivare, ripulisce il campo (o la vigna) dalle pietre, magari costruendo con esse un muretto di recinzione.

Ed eccoci a due gesti molto significativi nell’esperienza dell’uomo: l’abbracciare e l’astenersi dall’abbraccio. Si tratta dell’atto coniugale, ma anche di tutto ciò che lo prepara o distrugge, e delle relazioni umane improntate alla comunione o alla solitudine. È il mistero dell’amore che sorge e unisce le persone, ma che può anche spegnersi e dividere irrimediabilmente. Cercare e perdere, serbare e buttar via, appartengono alla trama della vita dell’uomo, con tempi propri. Ma sa l’uomo scegliere sempre i tempi giusti? Stracciare e cucire non si riferiscono semplicemente alla vita domestica, ma possono anche alludere al lutto a alla disgrazia (cf. Gn 37,29. 34; 2Sam 13,31). Il tacere e il parlare trascendono l’ambito familiare, dove tuttavia sono essenziali, per definire in generale l’uomo saggio che sa usare correttamente del dono della parola (cf., ad esempio, Pr 15,23; 26,4-5).

Le ultime due coppie sono disposte in ordine chiastico: amare-odiare, guerra-pace. Al centro ci sono i due elementi negativi: che l’uomo sia condannato alla violenza? Va aggiunto, però, che questa disposizione permette di chiudere tutta la serie dei tempi dell’uomo sulla pace, termine molto evocativo della speranza messianica. Amore e odio costituiscono gli estremi della scelta esistenziale dell’uomo, che sfociano a livello di storia rispettivamente nella pace e nella guerra. Pur attraverso le avversità e contraddizioni (sono gli elementi negativi della serie), esiste un movimento positivo nella storia dell’uomo che va dalla nascita (v. 2a) alla pace (v. 8b), oppure si tratta di un senso irraggiungibile per l’uomo?

Quale profitto?

La domanda del v. 9 riprende quella iniziale di 1,3 ed è rivolta più specificatamente a «colui che si affatica», cioè all’uomo preoccupato soltanto del profitto:

Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica? (Qo 3,9).

Qohelet entra in dialogo critico con la sapienza tradizionale, che è convinta non solo dell’esistenza di un tempo opportuno per ogni cosa, ma anche e soprattutto della possibilità per l’uomo saggio di conoscere questo tempo opportuno e dunque di padroneggiare la vita. Di fronte a questo atteggiamento che, con un termine difficile, potremmo definire «ottimismo epistemologico», il nostro autore è critico; non solo perché è consapevole dei limiti della conoscenza umana (cf. 1,12-18) ma anche perché sa che una vita impostata sulla ricerca di una felicità frutto delle proprie fatiche non conduce ad alcun reale profitto (cf. 2,1-26)!

Tuttavia questa non è l’unica impostazione della vita! Non esiste soltanto l’homo oeconomicus! Ed ecco allora che la ricerca del nostro saggio può continuare esplorando l’ambito della fede, cioè l’ambito della relazione con Dio, e inoltre quelle realtà che restano all’uomo a prescindere dalla ricerca esclusiva del profitto economico. Nasce così la riflessione seguente contenuta nei vv. 10-15.

Il significato del tempo dell’uomo (3,10-15)

Non è rilevante stabilire se il poema del tempo sia stato un poema indipendente, anteriore al Qohelet e da lui utilizzato, perché in ogni caso è nell’attuale contesto della riflessione qoheletiana che esso va interpretato. L’epoca contemporanea conosce un interesse notevole circa il problema del tempo, sia nel mondo greco che in quello giudaico. Il nostro saggio non considera globalmente il concetto di tempo inteso come durata, bensì il tempo nelle sue determinazioni storiche particolari, cioè nei suoi singoli momenti di vita. Rifuggendo da speculazioni escatologiche o apocalittiche, osserva questi momenti dell’esistenza e constata che essi sono guidati da Dio, ma secondo una logica che sfugge alla comprensione dell’uomo.

Per ben sei volte nei vv. 10-14 compare il termine «Dio» (vv. 10.11.13.14, qui due volte, v. 15); si tratta della più alta concentrazione di espressioni relative a Dio di tutto il libro, segno evidente che il punto di vista da cui Qohelet si pone è quello teologico. È alla luce di Dio che il saggio ebreo cerca di leggere il mistero insondabile e apparentemente contraddittorio dei tempi dell’uomo. Con ciò Qohelet continua e approfondisce la precedente riflessione di 1,13-18, dove afferma la validità della ricerca sapienziale, ma anche i limiti laddove essa pretenda di dare all’uomo risposte esaurienti. Proprio per questo esplora ora l’ambito teologico.

L’unità è articolata in tre momenti: vv. 10-11; 12-13; 14-15, introdotti da un verbo di osservazione in prima persona, caratteristico dello stile di Qohelet: «Ho considerato», «so che», ancora «so che». La disposizione è chiastica: l’opera di Dio (vv. 10-11) – l’invito alla gioia (vv. 12-13) – l’opera di Dio.

Il mistero del tempo

10 Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. 11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine (Qo 3,10-11).

Nel testo ebraico al v. 11 compare un termine ebraico di difficile interpretazione: ‘ôlam, di fronte al quale le interpretazioni degli esegeti si sono moltiplicate[6]. È nell’ambito temporale che il termine va considerato; così vuole il contesto della pericope 3,1-15 e anche l’uso corrente di questo termine sia in Qohelet sia nella Bibbia ebraica. Il concetto di eternità è estraneo alla riflessione qoheletiana, sia nel senso metafisico di un tempo senza fine sia nel senso religioso di una vita oltre la morte. Se c’è un tempo opportuno per ogni cosa, c’è pure un tempo costituito dalla somma di tutti questi tempi determinati; da parte di Dio esso rivela un senso di coerenza, da parte dell’uomo invece rimane incomprensibile e misterioso. Seguendo Mazzinghi possiamo perciò interpretare l’espressione ‘ôlam con «il mistero del tempo».

La seconda parte del v. 11 è introdotta da una particella (in ebraico gam) da intendersi non in senso avversativo («ma», come la traduzione della CEI), bensì aggiuntivo: «Anche». Dunque la traduzione suona meglio così:

«Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; ha posto anche nel loro cuore il mistero del tempo, senza però che gli uomini riescano a capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qo 3,11).

L’angolatura da cui si pone Qohelet è sempre la stessa, quella esperienziale, sotto il sole. Il compito di cercare e di investigare non è soltanto proprio del saggio ebreo (cf. 1,13-18), ma di ogni uomo. Alla domanda del v. 9, «che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?», Dio risponde assegnando agli uomini un compito preciso: cercare! Si tratta certo di un compito faticoso, tuttavia non è più qualificato come «penoso» (cf. 1,13); il senso di questo compito viene specificato dal v. 11.

La riflessione inizia con un giudizio estremamente positivo dell’opera creatrice di Dio. Qohelet rilegge il primo racconto della creazione interpretando il termine tôb («E Dio vide che era buono-bello») di Gn 1 come yapeh («bello»); quest’ultimo termine sottolinea di più la qualità estetica del creato, ma non in senso esclusivo – come dimostra la ricorrenza del termine in 5,17 – dove esso significa piuttosto «conveniente». Dunque Dio ha creato un mondo bello, ma anche conforme al suo volere; e infatti proprio per questo ogni cosa ha il suo tempo opportuno, secondo quanto Qohelet ha illustrato nel poema precedente (3,1-8).

Tuttavia l’uomo, pur avendo ricevuto nel cuore il mistero del tempo, non è capace di comprendere la logica e il senso di questo tempo; l’uomo può solo vivere i singoli momenti opportuni che gli si presentano. La conseguenza di tale imperscrutabilità dell’opera divina non diventa per Qohelet causa di disperazione e di pessimismo o fonte di scetticismo, ma invito all’uomo a scrutare e a vivere i singoli momenti di gioia che la vita gli offre. Se questo mistero del tempo che Dio gli ha infuso nel cuore non sfocia nella comprensione dell’opera divina, non costituisce nell’uomo un dato negativo e frustrante, esso infatti lo spinge alla ricerca delle possibilità di gioia che la vita offre e soprattutto al timore di Dio. È quanto Qohelet sviluppa nei versetti seguenti.

La gioia di vivere

12 Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; 13 ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio (Qo 3,12-13).

L’affermazione del v. 12 sulla positività del mangiare e del bere per l’uomo è ancora in relazione alla domanda del v. 9: quale profitto c’è per l’uomo? Non si tratta però di una risposta riduttiva, quasi una povera consolazione lasciata da Dio a un uomo comunque incapace di comprendere il senso dell’esistenza. La formula: «Non c’è nulla di meglio», compare altre volte nell’opera (2,24; 3,22; 8,15) sempre in connessione con un precedente sviluppo negativo (nel nostro caso l’impossibilità per l’uomo di capire a fondo l’opera di Dio) e dunque si propone di evidenziare un bene reale per l’uomo. Due verbi sottolineano questo bene: «godere» e «vivere bene»[7]; essi appaiono come compito dell’uomo: se Dio ha fatto bella e conveniente ogni cosa, l’uomo è chiamato a sperimentare questo bene nella propria vita, cioè a gioire.

In che cosa consista questa gioia viene specificato subito dopo dall’espressione «mangiare e bere» tipica di Qohelet (2,14; 5,17; 8,15; 9,7). La forza dell’espressione è nel suo significato simbolico; si tratta infatti non soltanto di necessità elementari dell’essere umano, ma della celebrazione di sentimenti profondi quali la festa, l’amicizia, il matrimonio, la nascita, l’ospitalità... Mangiare e bere appaiono così come i segni visibili della benedizione divina, essi infatti sono dono di Dio! Se il Dio di Qohelet appare da un lato lontano e irraggiungibile, dall’altro si rende presente in modo molto concreto e reale col dono della gioia del vivere. Questo richiamo al dono di Dio è importante perché esclude interpretazioni di carattere edonistico o epicureo e aggancia saldamente la fede alla vita concreta dell’uomo.

Il timore di Dio

Quest’ultima riflessione approfondisce il senso del timore di Dio sopra accennato. Le opere di Dio sono immutabili, cioè valgono per sempre, per tutto quel tempo di cui l’uomo intuisce l’esistenza, ma non il senso. Dunque, se Dio dona all’uomo le gioie della vita, non può quest’ultimo modificarle, magari accrescerle o intensificarle, perché la loro esistenza e qualità dipendono unicamente da Dio, la cui azione rimane immutabile.

14 Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché si abbia timore di lui. 15 Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già è; Dio ricerca ciò che è già passato (Qo 3,14-15).

Dio agisce così perché lo si tema, dove «temere» significa anzitutto riconoscere e accettare l’imperscrutabilità dell’agire divino. Chiaramente viene qui sottolineata la distanza trascendentale fra Dio e l’uomo, fra creatore e creatura. Tuttavia non c’è solo questo, perché questo Dio sa essere anche vicino all’uomo con il dono delle gioie della vita. Queste potrebbero essere intese in un ambito puramente antropologico (sarebbe allora la logica del carpe diem) o nel senso prometeico di strappare qualcosa a Dio. Invece nell’ottica di una fede che riconosce unicamente a Dio la comprensione del suo agire e quindi l’incomprensibilità per l’uomo del mistero del tempo, le gioie della vita appaiono nel loro vero significato di dono gratuito di Dio. Se il timore di Dio sottolinea con crudele chiarezza i limiti creaturali dell’uomo, gli consente pure di cogliere le gioie della vita nel loro ontologico significato di dono gratuito di Dio!

La conclusione del v. 15 è misteriosa, soprattutto l’ultima frase: «Dio ricerca ciò che è già passato». Le proposte degli autori sono numerose e discordanti[8]. Il contesto immediato della prima parte del versetto, come quello più generale dell’intero passo di 3,1-15, suggerisce di interpretare l’espressione in senso temporale: Dio ricerca «ciò che è inseguito», cioè il tempo passato, che non può più essere ricuperato dall’uomo e tanto meno compreso. Questo appartiene a Dio, per il quale soltanto esiste una chiara comprensione di tutto il mistero del tempo. «Dio non è soggetto alla caducità del tempo, lo supera e lo raggiunge in tutta la sua estensione passata e futura; ecco perché poter dire che Dio va in cerca del passato non è strano. Secondo la mentalità di Qohelet, Dio lo trova o lo raggiunge, l’uomo no»[9].

Conclusione

Il poema dei tempi dell’uomo (vv. 2-8) aveva suscitato la domanda del v. 9: quale profitto per l’uomo?. Questa domanda trova la sua risposta nella riflessione dei vv. 10-15, una delle riflessioni più teologiche dell’intero libro.

Chi è Dio? Apparentemente il Dio di Qohelet è un Dio lontano da quel yhwh che entra nella storia di Israele, un Dio impenetrabile e anche arbitrario. In realtà, un’attenta lettura del testo qoheletiano ci porta a conclusioni opposte. L’uomo sa che ci sono tempi convenienti per ogni azione, sa che esiste un mistero del tempo, che Dio gli ha consegnato nel cuore, ma che gli rimane incomprensibile nella sua logica di fondo, perché questa comprensione è esclusiva di Dio. Da questo punto di vista non c’è alcun profitto per l’uomo nel suo agire.

Tuttavia, tocca all’uomo il compito di cercare e in questo suo compito egli arriva a capire due cose: nonostante tutto la gioia resta una possibilità reale che Dio gli offre, le gioie della vita infatti sono dono di Dio e invito a goderne. In secondo luogo, l’uomo capisce che l’azione di Dio, pur misteriosa e incomprensibile, suscita in lui il timore di Dio; è questo timore di Dio che permette all’uomo di autocomprendersi come creatura e di giudicare le gioie della vita unicamente come dono di Dio. È volontà di Dio che l’uomo scopra e goda la gioia, ma nessuna gioia è possibile e vera senza il timore di lui, senza il rispetto di quel mistero del tempo che Dio ha posto nel cuore dell’uomo proprio perché egli lo tema.

Donne nella storia


Grandi donne della storia: Eleonora d’Aquitania, la donna che volle farsi due volte regina.
Articolo da rivista storica.
Bella. La si riesce ad immaginare solo così, Eleonora; e fa un po’ strano figurarsela, perché, chissà come mai, nel Medioevo si dà per scontato che siano stati tutti brutti, sporchi, sdentati ed anche un po’ deformi. Invece no, lei doveva essere bella, bellissima, di quella bellezza un po’ imperiosa ed inquietante, poi, che hanno solo le donne di carattere e di ingegno, quella che non passa con gli anni, insomma, ma semmai aumenta: la bellezza degli occhi vivaci che, quando ti guardano, ti scavano dentro fino all’anima, del sorriso accennato, a fior di labbra, che può essere dolce e divenire beffardo in un fiat: la bellezza enigmatica che non si lascia mai prendere del tutto, e mai conquistare da altri, ma si concede solo per suo capriccioso arbitrio, per univoca decisione.

Altera, passionale, sottile, testarda, indomabile, Eleonora riuscì nel miracolo di essere compiutamente donna in un mondo di uomini, con cui battagliò, vinse e perse trattandoli alla pari: riesce difficile per noi femminucce anche oggi, immaginiamoci nel Medioevo.

Nasce in Aquitania, tanto per cominciare, che è come nascere oggi nella Manhattam bene, e giocare fin da piccoli nell’atrio del Metropolitan Museum: una corte allegra e scapricciata, dove le dame ridevano liete e i poeti componevano strofe salaci; nasce da due genitori che si amano, e perciò hanno della vita una visione positiva ed entusiasta. Sono colti, giovani, intelligenti e vogliono che le figlie siano simili a loro. Un bagolo, per Eleonora, che ha gli occhi vivaci e la mente pronta, e cresce libera e fiera, alternando un torneo, una gita a cavallo e un ballo a corte, dove non si danza solo, ma si ascoltano bei versi d’amore. Si cresce convinti che la vita è bella, in un luogo così, e che tutto è possibile per chi, dalla vita, si lascia baciare.

A otto anni, quando muore il fratello maggiore, è già destinata a diventare duchessa, e di un feudo tra i più ricchi del mondo; a quindici, il padre passa a miglior vita all’improvviso, e lei si ritrova capo di stato sul serio. È quasi una bimba, e per di più femmina. Il padre, che pure ne conosce il caratterino, prima di andarsene ha fatto in tempo a stipulare, per salvaguardarla, un matrimonio con Luigi VII, re di Francia.

Sono giovani, belli, potenti, in un certo senso complementari: sulla carta dovrebbero essere la coppia del secolo. Provano ad esserlo, in effetti, per qualche anno. Se gli opposti si attraggono, questo è massimamente vero quando uno degli opposti è Eleonora. Luigi è un ragazzo pacato e un po’ grigio, cresciuto in un ambiente dove il peso della religione è grande: la corte è piena di chierici e di monaci, è tutta un sussurro da sacrestia interrotto, di tanto in tanto, dai cori per le funzioni, e il maestro dei canti è nientepopodimeno che Bernardo di Chiaravalle, monaco e teologo, dotato di uno di quei caratteri bruttissimi che aiutano a passare per santi già da vivi.

Eleonora, invece, lo travolge e lo affascina, il suo giovane re: Eleonora che non accetta imposizioni, Eleonora che fa di testa sua, Eleonora che pretende di essere trattata non come una moglie, ma come una regina. Si porta i suoi poeti, e le sue dame; organizza i suoi divertimenti, e se ne strafrega delle chiacchiere alle spalle; tratta con gli uomini alla pari, con la differenza che è donna, e gli uomini, a trovarsela di fronte, non possono che rimanere imbambolati. E litiga, quando c’è da litigare, perché di tutte le doti che, da donna, può avere, la remissività è l’unica che le manca, anche se è quella che nel medioevo, dalle femmine, è la sola a essere pretesa. Oscura il re, anche se non fa nulla, perché il sole, senza far nulla, è più brillante della luna; a corte si sospettano dovute al suo influsso persino le decisioni che lui, magari, prende da solo, perché pare impossibile che Luigi riesca a decidere qualcosa, mentre lei sembra in grado di decidere tutto. Le chiacchiere la perseguitano, come l’invidia meschina: la chiamano non Eleonor, ma Alienor: l’Estranea, l’aliena. In effetti, rispetto a loro, viene proprio da un altro mondo.

Con Bernardo ha un rapporto controverso: a pelle i due non si sopportano, ma sono entrambi due belle menti e due politici sottili, per cui non lo danno a vedere. Lei gli sorride, fingendo di cercarne i consigli e di venerarne la sapienza canuta, ma chissà perché ho l’impressione che, appena chiusa la porta dei suoi appartamenti, gli facesse in verso, replicandone per burla il religioso sussiego; lui, con tutto che è santo, la odia con l’odio feroce e segreto che i chierici hanno verso le donne belle e intelligenti: inviate del diavolo, seme perduto e pericoloso.

Il matrimonio va presto a rotoli: Luigi si sente un re dimezzato e Eleonora una regina in catene; poi non ci sono figli maschi. Grazie agli appoggi ecclesiastici, il re riesce a far dichiarare lo sposalizio nullo, con la scusa che lui ed Eleonora sono lontani cugini: strano, nessuno s’era ricordato di guardare l’albero genealogico, prima di celebrare le nozze? Bernardo gongola, e così i cortigiani francesi: per quella puttana il destino è ritornare ad essere la feudataria delle sue terre o ritirarsi in convento, perché a trent’anni, con un matrimonio fallito alle spalle e la fama di essere una sgualdrina, per quanto regale, chi vuoi che se la prenda? E invece lei, non appena libera dal laccio di Luigi, manda un messaggio ad Enrico di Normandia, convocandolo. Enrico ha undici anni meno di lei, la fama di essere bello, colto e spregiudicato; è figlio di Goffredo, che qualcuno diceva essere stato amante in passato di Eleonora. Quando arriva gli dice: “Sposiamoci.” Enrico se la guarda, quella donna ancora bellissima, sempre intelligente, e, forse, ancora più sensuale. Si fa due conti, ma risponde, subito e semplicemente, sì. Entrambi stanno azzardando una scommessa, ma ad entrambi, in fin dei conti, piace rischiare.

È come mischiare assieme due elementi che già da soli risultano esplosivi, devastanti. Lui ambizioso e sensuale, lei passionale e intelligente: passeranno la vita ad amarsi e a rendersi l’esistenza impossibile. Lui diventa pochi mesi dopo re di Inghilterra, e lei, di conseguenza, due volte regina. All’ex marito prende uno stranguglione a vederla di nuovo su un trono, e partorire uno in fila all’altro quattro maschi; gliene prende uno ancor più grande a vedersi sottratti i feudi di Eleonora, che restano però di lei possesso, perché lei è regina di Inghilterra, ma Enrico non è duca d’Aquitania: valgono con lui i patti che valevano con Luigi, per cui quello che è del marito è di Eleonora, ma quello che è di Eleonora resta suo.

I figli entreranno non solo nella storia, ma nella leggenda: Riccardo cuor di Leone e Giovanni Senza Terra. Li ama, appassionatamente, più dei mariti che ha avuto, più degli amanti, ma non cesserà mai di considerarli, in fondo, cose sue. Li usa come pedine nelle lotte contro il padre, glieli rivolta contro, li manipola, ma anche, a suo modo, li protegge. Eleonora è una donna indomita, e perciò pericolosa. Lo sa bene Enrico, che finisce per imprigionarla per anni, temendo i suoi complotti, subodorando, forse a torto, il suo zampino dietro alla morte dell’amante di cui s’era invaghito. Si odiano perché si sono amati, non riescono a stare assieme perché a sposarsi possono essere un uomo ed una donna, ma due capi di stato no. Eppure, sotto sotto, la ammira, la sua Eleonora: può incarcerarla, ma non avrà mai il coraggio di farla uccidere; infatti gli sopravvive.

Diventa reggente, in nome di quel Riccardo che è suo, suo, suo: lo ha creato e costruito per essere non solo re, ma eroe. Da eroe si comporta: parte infatti per la crociata e abbandona il regno, nelle mani di un fratello di cui non ci si doveva fidare. Eleonora non riesce a controllarlo del tutto, quel figlio minore che forse ha sempre sofferto di essere il secondo, e non solo per una questione di età. Quando Riccardo è catturato da un Asburgo, è Eleonora a muoversi per trovare il riscatto, e a portarlo di persona all’imperatore. Nelle leggende a conservare il regno a Riccardo è Robin hood, ma nella realtà a salvargli il collo ed il trono fu mamma. Quando anche Riccardo muore, appoggia Giovanni, perché è pur sempre suo figlio. Ma lei è pur sempre una sovrana, e difende, con le unghie e con i denti, le terre che sono sue, anche dalle pretese di figlioli e nipoti. A ottant’anni è ancora capace di dichiarar guerra ad un nipotino che la vorrebbe esautorare, e tenergli testa dall’alto delle mura, come una leonessa, anzi, come una regina. Persino la morte pare coglierla quando lo decide lei: entra in convento, prende il velo e spira: è lei che vuole abbandonare il mondo, non il mondo che la mette in un cantone e la abbandona. Perché Eleonora è Eleonora, e lo è stata e lo sarà per sempre, prima di tutto e più di ogni altra cosa

mercoledì 12 gennaio 2011

Dal sito di Monnalisa un excursus sull'arte declinata al femminile

Donne pittrici nella Storia dell'ArteMarie-Denise Villers, Woman Drawing, c. 1801New York, Metropolitan Museum of ArtLa storia dell'arte è piena di donne: donne dipinte, scolpite, affrescate... le donne ritratte sono, anzi, in netta maggioranza rispetto agli uomini. Eppure, pochissime sono state quelle che, nel corso dei secoli, hanno avuto l'opportunità di fare dell'arte una professione. Non come soggetti passivi ma come artiste a pieno titolo, protagoniste nell'ambiente del proprio tempo. Le ragioni sono molteplici; alcune, ce le spiega Umberto Eco in questo divertente brano tratto dalla "Bustina di Minerva", pubblicata su "l'Espresso" del 19 aprile 2005.La vecchia affermazione filosofica per cui l'uomo è capace di pensare l'infinito mentre la donna dà senso al finito, può essere letta in tanti modi: per esempio, che siccome l'uomo non sa fare i bambini, si consola coi paradossi di Zenone. Ma sulla base di affermazioni del genere si è diffusa l'idea che la storia (almeno sino al Ventesimo secolo) ci abbia fatto conoscere grandi poetesse e narratrici grandissime, e scienziate in varie discipline, ma non donne filosofe e donne matematiche.Su distorsioni del genere si è fondata a lungo la persuasione che le donne non fossero portate alla pittura, tranne le solite Rosalba Carriera o Artemisia Gentileschi. È naturale che, sino a che la pittura era affresco di chiese, montare su un'impalcatura con la gonna non era cosa decente, né era mestiere da donna dirigere una bottega con 30 apprendisti, ma appena si è potuta fare pittura da cavalletto le donne pittrici sono spuntate fuori. Un poco come dire che gli ebrei sono stati grandi in tante arti ma non nella pittura, sino a che non si è fatto vivo Chagall.È vero che la loro cultura era eminentemente auditiva e non visiva, e che la divinità non doveva essere rappresentata per immagini, ma c'è una produzione visiva di indubbio interesse in molti manoscritti ebraici. Il problema è che era difficile, nei secoli in cui le arti figurative erano nelle mani della Chiesa, che un ebreo fosse incoraggiato a dipingere madonne e crocifissioni, e sarebbe come stupirsi che nessun ebreo sia diventato papa».http://www.universitadelledonne.it Le donne invisibili del Medioevohttp://www.unc.edu Donna medioevale ai fornelliIn Europa la comparsa di donne artiste, delle quali si abbia una sufficiente documentazione, risale al Rinascimento, intorno alla metà del XVI secolo.La spiegazione di questa carenza di autrici prima del Cinquecento si può trovare nell’analisi del ruolo della donna europea nel Medioevo. Secondo la tradizione, la donna era destinata a vivere tra le mura domestiche: da ragazza, sotto la tutela del padre; da adulta, sotto quella del marito. Suoi principali doveri ed occupazioni erano il fatto di essere una buona moglie e madre, oltre che un'abile massaia; le pochissime donne che sfuggivano a questo destino erano un'eccezione alla regola. E l'età medioevale non faceva eccezione: le poche donne che riuscivano a scampare alla vita del convento, si fidanzavano quando erano poco più che bambine e, mediamente, a quindici anni erano già madri. Quasi tutte, nubili o sposate che fossero, si dedicavano ad attività familiari e il frutto del loro lavoro apparteneva solo agli uomini: ai padri, ai fratelli, ai mariti. Le donne, dunque, dovettero scontrarsi nel corso della storia con una dura vita di lavoro, oltre a dover lottare contro gravi pregiudizi. Per esempio, era convinzione diffusa che l'istruzione interferisse con le qualità necessarie per essere una buona moglie e madre; quindi, la quasi totalità delle donne era analfabeta. Prima del Trecento, oltre ad accudire i figli, la famiglia e custodire il focolare domestico, le donne meno abbienti lavoravano nei campi a fianco degli uomini, coltivavano verdura e frutta, allevavano animali da fattoria, producevano formaggio e birra, si occupavano della conservazione dei cibi e della loro preparazione. Molte di esse, inoltre, si dedicavano alla fattura di tessuti in casa, dall’inizio alla fine, ovvero cardando la lana, filandola e tessendola. E’ quindi comprensibile che un'attività lavorativa, al di fuori dell’ambiente casalingo, fosse pressoché impensabile.Solo le poche fortunate che facevano parte dell’alta società o dell'aristocrazia sfuggivano alle fatiche del lavoro nei campi e alle incombenze domestiche, potendo quindi dedicarsi al ricamo e all’arazzo, una prima forma d’arte che richiedeva una notevole manualità. Alcune regine sono ricordate per la loro abilità nel tessere, ma anche semplici dame di corte che lavoravano alacremente per produrre stole, paramenti e stendardi che tuttora si trovano in molte chiese medievali. L'arazzo di Bayeux- Le ricamatrici medioevali furono le vere antesignane delle pittrici rinascimentali per il valore ed il volume delle loro opere. Una di queste, forse la più importante, è l'arazzo di Bayeux, noto anche con il nome di arazzo della regina Matilde, sposa di Guglielmo il Conquistatore a partire dal 1053. L'arazzo di Bayeux (in francese, tapisserie de Bayeux) non è, propriamente, una tappezzeria; più esattamente, si tratta di un ricamo realizzato con lana di otto colori naturali su pezze di lino bigio. È suddiviso in una serie di pannelli, che in totale misurano settanta metri di lunghezza per cinquanta centimetri di altezza. L'arazzo contiene 126 personaggi diversi ed è suddiviso in scene distinte, ciascuna delle quali è corredata da un breve commento in lingua latina.Sembra che la monumentale opera sia stata ordinata da Oddone di Bayeux, fratellastro di Guglielmo il Conquistatore, per descrivere gli eventi relativi alla conquista dell'Inghilterra nel 1066 e, in particolare, la battaglia di Hastings. Da notare, comunque, che circa metà delle immagini sono relative a fatti precedenti questa battaglia. Quanto agli autori dell'opera, gli storici ritengono che a realizzarla - probabilmente in Inghilterra - fu la regina Matilde, aiutata dalle sue dame di compagnia, tra il 1066 e il 1082, quindi venti o trent'anni dopo gli avvenimenti che descrive. L'arazzo doveva servire come decorazione per la navata della nuova cattedrale di Bayeux, inaugurata nel 1077.L'opera ha un valore documentario inestimabile per quanto riguarda la conoscenza della vita dell'XI secolo in Normandia e in Inghilterra, dato che ci rimanda notizie preziose su usi e costumi dell'epoca, come la costruzione di castelli e di navi, il vestiario, le condizioni di vita, e così via.L'arazzo è giunto fino a noi attraverso i secoli in modo alquanto confuso: per molto tempo fu esposto a Bayeux, in Normandia, con periodi di turbolenza durante i quali fu nascosto, specialmente durante la Rivoluzione francese. Nel corso del XIX secolo fu oggetto di numerosi studi scientifici e di un restauro condotto a Bayeux nel 1842, in seguito al quale fu esposto sotto vetro. Fu nuovamente nascosto durante la guerra franco-prussiana del 1870 ed infine durante la Seconda Guerra Mondiale. Oggi è esposto nel Centre Guillaume le Conquérant di Bayeux. Hildegarde von Bingen - La Sibilla del regno. Una stampa raffigurante Hildegarde von Bingen (1098-1179) Una delle personalità femminili del Medioevo è quella di Hildegarde von Bingen, nata in una nobile famiglia tedesca poco dopo l'anno Mille. Come spesso accadeva a quell'epoca, Hildegarde a soli 14 anni venne rinchiusa in un convento benedettino di clausura, affiliato al monastero maschile di St. Disibod. Divenuta superiora sotto l’autorità del vescovo di St. Disibod, dopo alcuni anni cominciò ad avere visioni profetiche e fu spinta dal vescovo a scriverle. La maggior parte di queste visioni sono registrate in alcune opere, delle quali il Liber Scivias è la più famosa. Si tratta di un'imponente raccolta di scritti e inni che raccontano la concezione di Hildegarde della vita e della Storia, intesa come viaggio dell'uomo guidato da Dio verso il Giorno del Giudizio. I libri sono corredati da elaborate illustrazioni miniate. La copia più antica del documento, smarrita durante la Seconda Guerra Mondiale, riportava illustrazioni originali come quella sotto. Illustrazione tratta dal Liber Scivias Ancor prima di completare lo Scivias, Hildegarde era già conosciuta in Europa per la sua peculiare e originale visione del futuro dell’universo e per le sue doti di artista, filosofa e profetessa, tanto da guadagnarsi l'appellativo di "Sibilla del Regno". Già avanti negli anni, fondò un monastero separato da quello originario nei pressi di Bingen. Durante la non breve vita (morì a 81 anni) viaggiò e fece seminari, predicando in molte cattedrali e conventi ed entrando in contatto con numerosi ecclesiastici illustri del suo tempo.Notizie tratte da: http://www.swif.uniba.it Il Giardino delle DelizieHortus Deliciarum) Le sette arti liberaliImmagine dall'Hortus Deliciarum di Herrad von Landsberg (XII secoloLa francese Herrad von Landsberg (1130-1195), badessa di un convento di Hohenburg (Alsazia), è ricordata per l'Hortus Deliciarum (Il Giardino delle Delizie), un'opera che compose per le sue monache e delle cui illustrazioni restano oggi solo i disegni eseguiti prima che manoscritto finisse bruciato. In questo compendio delle sapere medioevale Herrade sviluppò un tema antico: la battaglia tra il Vizio e la Virtù, trasportandolo in un linguaggio figurativo così vivido da costituire un'influenza determinante su molti successivi sistemi decorativi medievali che estesero e divulgarono lo stesso tema. Diversamente dalla maggioranza dei manoscritti medioevali, qui le immagini visive precedono e quindi condizionano quelle verbali del testo. La Superbia è una donna potente e sicura di sé, che cavalca all'amazzone su un destriero impettito con una gualdrappa di pelle di leone, seguita da un esercito di eleganti soldatesse in tuniche di maglia d’acciaio. In un'altra illustrazione, uomini e donne, laici ed ecclesiastici cadono dalla scala delle Virtù perché cedono alla tentazione di immediate soddisfazioni mondane in forma di ricchezza e di potere. Il carro della Lussuria si rovescia e fa precipitare gli occupanti tra cespugli di spine. Il messaggio morale di fondo del libro di Herrade è dunque sempre chiaro, anche se le sue immagini si possono decifrare in tutta alla loro intricata complessità solo se si ha una conoscenza approfondita della teologia medievale. Da: http://guide.dada.net Le miniaturiste laiche del XIV e XV secoloIllustrazioni di Jean le Noir e di sua figlia Bourgot, in un libro che risale alla metà del 1300 L’usanza tra le famiglie medioevali di mandare le figlie in convento per ricevere un’istruzione elementare fece in modo, oltre a far ritenere arte e cultura doti adeguate alla buona educazione di una vera signora, che l’arte della decorazione, della copiatura e del disegno si divulgassero anche fra i laici. Infatti, tra il tardo Trecento e i primi del Quattrocento vi sono alcuni nomi di miniaturiste laiche. Nel XIV secolo Bourgot, figlia di Jean le Noir, miniaturista francese, lavorava a fianco del padre per illustri committenti quali Carlo V e il duca di Berry. E’ certo che padre e figlia lavorassero assieme, ma è impossibile distinguere differenze stilistiche nelle opere per sapere quali siano attribuibili a Bourgot e quali al padre. Agli inizi del 1400 la scrittrice femminista Christine de Pisan dedicò, nel suo libro Cité des Dames del 1405, un’ampia citazione ad una certa Anastaise, descrivendola come un’abilissima illustratrice che superava in talento molti miniatori parigini del tempo. Anche di Anastaise, comunque, non resta alcuna opera attribuibile con certezza.Da: http://guide.dada.net Il primo Rinascimento in ItaliaSuor Plautilla Nelli, Madonna con bambino e quattro angeli. Olio su tavola - Empoli, Museo della Collegiata di Sant'AndreaLe prime artiste italiane di una certa rilevanza comparvero solo agli inizi del Rinascimento e furono, ancora una volta, monache. Maria Ormani, monaca fiorentina dell'ordine delle Agostiniane, fu calligrafa e miniatrice. Nel 1453 scrisse e miniò un Breviarium Calendario ad usum Ordinis S. Augustini estremamente elegante, che attualmente si trova nella Biblioteca Imperiale di Vienna e che ci permette di comprendere che la monaca aveva raggiunto un alto livello di perfezionamento artistico. A pag. 89 è dipinto il ritratto dell'autrice in abito di agostiniana con la scritta Ancilla Iesu Christi Maria Ormani filia scripsit MCCCCL III. Un'altra artista fiorentina del periodo fu Suor Barbara Ragnoni, che firmò numerose opere pittoriche di cui resta solo un’Adorazione dei pastori, conservata alla Pinacoteca di Siena. Plautilla Nelli (1523 – 1588) è considerata la prima vera artista donna di Firenze. Figlia del pittore Luca Nelli, a soli 14 anni entrò nel convento di Santa Caterina della sua città insieme alla sorella Petronilla (scrittrice e autrice di una Vita del Savonarola). Qui trascorse la vita pregando e dipingendo molto, tra grandi difficoltà. La leggenda racconta che, per ritrarre il corpo di Cristo in una Deposizione, usò come modella una sua consorella. Fece, insomma, di necessità virtù… eppure, la figura non ben delineata del suo Cristo fu giudicata da molti suggestiva. Fonti bibliografiche:http://www.csupomona.eduhttp://www.toscanaoggi.ithttp://www.arabafelice.it . L'arte di Santa Caterina de' Vigri. Caterina de' Vigri, Madonna del pomoOlio su tavola - Bologna, Museo Corpus DominiSe per le donne c'è stato un Rinascimento, questo ha avuto luogo di sicuro a Bologna nel XVI secolo». - Whitney Chadwick - Caterina de' Vigri [Santa Caterina] (1413-1463) fu una monaca bolognese proveniente da una nobile casata della sua città. da bambina si trasferì a Ferrara, dove il padre svolgeva mansioni diplomatiche per il marchese di Ferrara, Nicola d'Este III. Fin dalla tenera età Caterina ebbe alcune visioni e a 14 anni scelse volontariamente la via del convento in seguito alla morte del padre, optando, dopo varie vicissitudini, per l'ordine delle Clarisse. Caterina fu una donna coltissima, scrittrice, miniatrice e musicista: oltre a comporre inni in latino e brani di musica, produsse affreschi, quadri e manoscritti con miniature. Gli affreschi sono andati perduti, ma alcune delle sue opere è arrivata fino a noi. Presso il convento Corpus Domini, del quale fu baessa, c'è ancora un breviario scritto e decorato da lei. Caterina fu proclamata santa nel 1712 da papa Clemente XI ed è considerata la protettrice dei pittori. Il quadro raffigurato sopra è una delle poche opere superstiti, conservata presso il Museo del Corpus Domini di Bologna, dove si trova anche il suo corpo, seduto e incorrotto.Nella sua agiografia sono raccontati alcuni fatti inspiegabili riferiti da una testimone oculare, la beata Illuminata Bemb. Durante la Quaresima del 1463, Caterina si ammalò gravemente e morì il 9 marzo. [...] Allorchè la fossa fu pronta e quando vi calarono il corpo, che non era racchiuso in una bara, esso emanava un profumo di indescrivibile dolcezza, riempendo l'aria tutt'intorno. Le due sorelle, che erano discese nella tomba, mosse a compassione dal Suo viso bello e radioso, lo coprirono con un panno e posero una rozza tavola alcuni centimetri sopra il corpo, affinchè le zolle di terra non lo toccassero. Tuttavia lo fissarono così goffamente che, quando la fossa fu riempita di terra, il viso ed il corpo furono comunque coperti. venivamo spesso a visitare il cimitero, a piangere, pregare e leggere presso la tomba, e notavamo sempre il dolce odore che la circondava. Dal momento che non c'erano fiori, né erbe aromatiche accanto alla fossa, ma solo arida terra, ci convincemmo che il profumo proveniva proprio dalla tomba. [...] Ben presto cominciarono i miracoli ed alcuni malati gravi, che avevano visitato la tomba, furono guariti. Nel frattempo, ci pentimmo di averLa seppellita senza bara e ce ne lamentammo con il Padre confessore. Egli, un uomo di gran senno, ci chiese cosa intendessimo fare per porvi rimedio e noi proponemmo di tirarLa fuori, metterLa in una bara e riseppellirLa. Egli fu sorpreso da una simile richiesta, poiché erano già passati 18 giorni dalla morte e quindi era sicuro dello stato di decomposizione del cadavere. Tuttavia, quando gli facemmo notare il dolce profumo, egli finalmente acconsentì a disseppellirLa. [...] Quando trovammo il corpo e ripulimmo il viso, notammo che era stato schiacciato e sfigurato dal peso della tavola di legno che vi era stata posta sopra. Inoltre, scavando, tre delle sorelle l'avevano danneggiato con la vanga. La ponemmo in una bara e stavamo per riseppellirLa, quando uno strano impulso ci spinse a sistemarLa temporaneamente sotto il portale. Fu allora che il naso schiacciato e l'intero viso ripresero gradualmente la loro forma naturale. La defunta divenne di colore bianco, bella, intatta, come se fosse ancora viva, le unghie non erano annerite ed Ella emanava un odore delizioso. Tutte le sorelle erano profondamente agitate; il profumo si diffondeva nella chiesa e nel convento, impregnando le mani che L'avevano toccata, e non sembrava esserci alcuna spiegazione. [...] Dopo essere diventata abbastanza pallida, Ella cominciò a cambiare colore, divenendo più rossa, mentre il Suo corpo cominciava ad emettere un sudore piacevolmente profumato. Passando dal pallore ad un colore d'ambra incandescente, Ella trasudava un liquido aromatico che a volte sembrava acqua limpida ed a volte un miscuglio di acqua e sangue. Piene di meraviglia e perplessità, chiamammo il confessore. La voce si era già sparsa in città ed egli accorse, accompagnato da un colto medico, Maestro Giovanni Marcanova, ed essi osservarono da vicino e toccarono il corpo». http://www.firponet.com Properzia de' Rossi. http://www.vroma.org Properzia de' RossiErcole batte un'amazzone con la clava. XVI secolo. Firenze, Palazzo VecchioPersino Giorgio Vasari, non sempre generoso nei confronti degli artisti bolognesi, parla con ammirazione, nelle "Vite", della scultrice madonna Properzia, della quale celebra anche l'avvenenza fisica, l'abilità canora e il virtuosismo musicale (Properzia era un'abile suonatrice di liuto).............«[...]Properzia de' Rossi da Bologna, giovane virtuosa, non solamente nelle cose di casa, ma in infinite scienzie che non che le donne, ma tutti gli uomini l'ebbero invidia. Costei fu del corpo bellissima e sonò e cantò ne i suoi tempi meglio che femmina della sua città. E perciò ch'era di capriccioso e destrissimo ingegno, si mise ad intagliar noccioli di pesche, i quali sí bene e con tanta pazienzia lavorò, che fu cosa singulare e maravigliosa il vederli, non solamente per la sottilità del lavoro, ma per la sveltezza delle figurine che in quegli faceva e per la delicatissima maniera del compartirle. E certamente era un miracolo veder in su un nocciolo cosí piccolo tutta la Passione di Cristo, fatta con bellissimo intaglio, con una infinità di persone, oltra i crucifissori e gli Apostoli. Questa cosa le diede animo, dovendosi far l'ornamento delle tre porte della prima facciata di San Petronio, tutta a figure di marmo, che ella per mezzo del marito, chiedesse a gli operai una parte di quel lavoro, i quali di ciò furon contentissimi, ogni volta ch'ella facesse veder loro qualche opera di marmo condotta di sua mano. Onde ella subito fece al Conte Alessandro de' Peppoli un ritratto di finissimo marmo, dov'era il Conte Guido suo padre di naturale. La qual cosa piacque infinitamente, non solo a coloro, ma a tutta quella città, e perciò gli operai non mancarono di allogarle una parte di quel lavoro». Da Giorgio Vasari: Le vite de' più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani, da Cimabue insino a' tempi nostri - Edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550). Ha ben ragione Vasari quando descrive con ammirazione Properzia, dato che si tratta dell'unica scultrice del Rinascimento. Nata a Bologna nel 1490 e dotata di talento precoce, ricevette - secondo la tradizione - i primi insegnamenti pittorici dall'incisore Marcantonio Raimondi. Dotata di capacità tecniche sorprendenti, Properzia era in grado di scolpire persino noccioli di pesca, come riporta Vasari nel brano sopra. Presso il Museo Civico Medievale di Bologna è conservata un'aquila a due teste (emblema araldico eseguito per la nobile famiglia Grassi) in filigrana d'argento, sormontata da una corona dove sono incastonati ben undici noccioli di pesca intagliati dalla scultrice. Per ciascun nocciolo, la de' Rossi eseguì due immagini: da una parte l'effige di un apostolo e dall'altra quella di una santa. E non è tutto: secondo alcune fonti intagliò, in un nocciolo di ciliegia, addirittura sessanta teste! Probabilmente, si fa riferimento a quello incastonato in un anello, oggi conservato presso il Gabinetto delle Gemme della Galleria degli Uffizi di Firenze. Nella sua breve vita (morì di peste a soli 39 anni) Properzia riuscì a vivere intensamente, come poche donne dell’epoca seppero fare e costituì un modello per molte delle artiste che vennero dopo di lei, da Elisabetta Sirani ad Artemisia Gentileschi. Bellissima e affascinante, scelse di essere libera, anzitutto da doveri e convenzioni. Andava così fiera della sua spregiudicatezza che non si fece scrupolo a rifiutare il vincolo del matrimonio in favore di una convivenza. Chi la conosceva, difficilmente si tratteneva dall'infangare il suo nome; la sua abilità artistica, del resto, infastidiva parecchio. Donna passionale e sensibile, la de' Rossi assecondò sempre il proprio istinto e la naturale vena creativa. Ma non furono solo i noccioli a renderla nota. Anche se oggi della sua produzione artistica non rimane molto (per le artiste donne, soprattutto di epoca medioevale, molte opere non sono documentate e l'attribuzione è incerta), ricevette molte commissioni per eseguire sculture in legno e in marmo. Properzia de' Rossi, Giuseppe e la moglie di Putifarre - Particolare, c. 1520. Bologna, Museo di San Petronio. Alcune delle sue formelle in marmo sono visibili nel Museo della Basilica di San Petronio in Piazza Maggiore a Bologna. E certamente sua risulta, da documentazione scritta, l’esecuzione di angeli e sibille tra quelli scolpiti nel portale destro della facciata. Inoltre, Properzia collaborò all’esecuzione di alcuni capitelli del portico di Palazzo Salina-Amorini in via Santo Stefano, sempre a Bologna. Nel 1530 l'artista si ammalò di peste. Era una donna già celebre in molti ambienti e la sua notorietà sarebbe ulteriormente cresciuta se fosse vissuta più a lungo. Quando il papa Clemente VII si recò a Bologna, in occasione dell’incoronazione di Carlo V, aveva come scopo anche quello di incontrare questa grande artista. Cercò di lei, ma Properzia De’ Rossi era già morta. Fonti di riferimento:http://blog.libero.ithttp://www.homolaicus.comhttp://bepi1949.altervista.org Ho cercato a lungo il ritratto di Properzia de' Rossi in rete, senza riuscire a trovarlo.Poi, ho chiesto lumi ad un'enciclopedia vivente di mia conoscenza (sono rare, ma qualcuna esiste ancora) ed ho scoperto che l'unico ritratto a colori della bella Properzia è quello di Jean-Louis Ducis, che la ritrae mentre scolpisce Ariadne, l'ultima sua opera. Purtroppo, però, non si trova in rete. Inoltre, Ducis - allievo di David - è un pittore vissuto a cavallo tra '700 e '800, quindi il suo ritratto è quasi certamente opera di fantasia.Però, a leggere bene il Vasari, Properzia era solita scolpire ritratti di persone reali nei suoi bassorilievi (come quello del suo padre naturale, per esempio). E lascia intendere che la "moglie di Putifarre" nella sua più famosa opera è in realtà lei stessa, a rappresentazione di una sua sfortunata storia d'amore.Tuttavia, per i più curiosi ed esigenti, l'"enciclopedia vivente" di cui sopra mi ha passato una stampa di Properzia che ne evidenzia la bellezza del volto. L'incisione è stata eseguita dal francese Nicolas de Larmessin (1640-1725). Difficile abbandonare la figura di Properzia e passare oltre, senza approfondire qualcosa ancora della sua vita appassionata e a dir poco anticonformista, per l'epoca in cui visse. Ma, se le notizie sull'artista bolognese abbondano in rete, sono pochissime le sue opere riprodotte e ancor più rari i ritratti. Tuttavia, avendo oggi più tempo, sono riuscita a trovarne altri due. Il ritratto di Properzia de Rossi riprodotto qui sotto, così come quello che chiude il post, sono di autore ed epoca sconosciuti e provengono dalla Fototeca del sito dei Beni Culturali. Fero splendor di due begli occhi accrebbegià marmi a marmi;o stupor nuovo e strano!Ruvidi marmi, delicata manofea dianzi vivi, ahi morte invidia n'ebbe».- Vincenzo Bonaccorso Pitti, Firenze, XVI secolo. Questo epitaffio, invece, fu composto da Bonaccorso Pitti per celebrare non solo la bellezza di Properzia, ma anche l'abilità e la carriera artistica della scultrice, stroncata da una morte prematura. Ciò, in barba ai pregiudizi maschili dell'epoca, che permisero a Properzia di competere con artisti uomini, e vincere, per accaparrarsi alcune commissioni. Per esempio, quella di scolpire alcune formelle di marmo per la cattedrale di San Petronio, a Bologna (ne scolpì quattro, per le porte laterali). Anche Vasari, come abbiamo visto, nelle "Vite" tesse le lodi di questa artista... senza, tuttavia, nascondere certi pregiudizi, come ad esempio il ritenere insolito il fatto che una donna potesse dedicarsi alla scultura, attività che richiede una certa forza fisica. Il biografo toscano parla di Properzia come di una donna bellissima, molto virtuosa, di gran talento artistico, specie nella più femminile arte orafa enell’intaglio di pietre preziose. Nel riferire la sua opera più importante, una formella scolpita in rilievo per uno dei portali della chiesa di San Petronio, con la scena biblica di Giuseppe tentato dalla moglie di Putifarre, Vasari racconta di un episodio della vita di Properzia, un amore non corrisposto, collegandolo al motivo ispiratore della scena scolpita nel bassorilievo. Si tratta, indubbiamente, di un'opera molto energica ed espressiva, al di là dei pretesti emotivi raccontati da Vasari.«[...] Questa cosa le diede animo, dovendosi far l'ornamento delle tre porte della prima facciata di San Petronio, tutta a figure di marmo, che ella per mezzo del marito, chiedesse a gli operai una parte di quel lavoro, i quali di ciò furon contentissimi, ogni volta ch'ella facesse veder loro qualche opera di marmo condotta di sua mano. Onde ella subito fece al Conte Alessandro de' Peppoli un ritratto di finissimo marmo, dov'era il Conte Guido suo padre di naturale. La qual cosa piacque infinitamente, non solo a coloro, ma a tutta quella città, e perciò gli operai non mancarono di allogarle una parte di quel lavoro. Nel quale ella finí, con grandissima maraviglia di tutta Bologna, un leggiadrissimo quadro, dove (percioché in quel tempo la misera donna era innamoratissima d'un bel giovane, il quale pareva che poco di lei si curasse) fece la moglie del maestro di casa di Faraone che, innamoratosi di Iosep, quasi disperata del tanto pregarlo, a l'ultimo gli toglie la veste d'attorno con una donnesca grazia e piú che mirabile. Fu questa opera da tutti riputata bellissima et a·llei di gran sodisfazzione, parendole con questa figura del vecchio Testamento avere isfogato in parte l'ardentissima sua passione. Né volse far altro mai per conto di detta fabbrica, né fu persona che non la pregasse ch'ella seguitar volesse, eccetto Maestro Amico, che per l'invidia sempre la scon|fortò e sempre ne disse male a gli operai, e fece tanto il maligno, che il suo lavoro le fu pagato un vilissimo prezzo".Il Peppoli citato da Vasari è il conte Guido Pepoli - del quale Properzia eseguì un bassorilievo in marmo, oggi conservato a Palazzo Pepoli, a Bologna - al quale chiese protezione per tutelare la propria posizione, nel clima conflittuale e pieno di rivalità con gli altri artisti, che mal tolleravano di dover rivaleggiare con una donna. Del resto, la sensualità e il carattere passionale di Properzia costituiva una continua sfida, alla quale lei stessa non mancava di sottoporsi. Ed ecco i tocchi di cesello impressi su noccioli di frutta, alternati a colpi vibrati sulle lastre di marmo.Vero è che questa donna a tinte forti ha lasciato un segno, nonostante la scomparsa prematura. Lo testimonia il fatto che, a tre secoli dalla sua morte, nel XIX secolo, ispirò a Paolo Costa una tragedia in versi a lei intitolata. Fontihttp://www.wga.huhttp://www.homolaicus.comhttp://links.jstor.orghttp://fototeca.iccd.beniculturali.it Primo Rinascimento nelle Fiandre. Levina Teerlinc, Portrait of Lady Katherine GreyAbout 1555-60London, Victoria and Albert Museum. Nello stesso periodo in cui in Italia si affermava la personalità di Properzia de' Rossi, anche nel resto dell'Europa facevano capolino - in un universo dominato tradizionalmente dagli uomini - alcune donne artiste che si guadagnarono una certa fama. Nei Paesi Bassi, per esempio, l'inizio della "Rinascita" coincide con la comparsa di due artiste fiammighe dei primi del Cinquecento. La scarsa documentazione storica delle artiste nelle Fiandre è spiegabile dall'assenza di una vera e propria tradizione letterario-biografica, che nel Nord - a differenza dell'Italia - si sviluppò solo alla fine del Cinquecento. Tuttavia, il ruolo della donna nei Paesi nordici come Germania e Fiandre era socialmente più elevato di quello in Italia, tanto che i ritratti femminili sono molti più diffusi. Con l'avvento della Riforma nei Paesi del nord Europa, la religione non imponeva più il celibato agli esponenti del clero; così, a differenza della religione cattolica (molto più maschilista e chiusa nei confronti delle donne), il Protestantesimo favorì l'affermarsi del ruolo femminile nella società in termini più paritari. Inoltre, l'importanza che i protestanti davano alla conoscenza della Bibbia facilitò l'alfabetizzazione senza distinzione di sesso: le scuole elementari miste apparvero al nord molto prima che in Italia. Date queste premesse, era assai meno sorprendente che all'estero la donna potesse esprimere le proprie doti artistiche più liberamente rispetto alle contemporanee italiane, le quali dovevano scontrarsi con l'ideologia patriarcale professata dalla religione cattolica. Le principali artiste fiamminghe degli inizi del Cinquecento furono due. La prima è Levina Teerlinc [o Teerline] (c. 1520 - 1576), la maggiore delle cinque figlie del miniaturista e illustratore di libri Simmon Bennink, di Bruges. Visse, insieme al marito, a Bruges fino a quando - all'età di 25 anni - si trasferì con lui a Londra, alla corte di Enrico VIII, divenendo miniaturista di corte con uno stipendio annuo di 40 sterline. Prese infine la cittadinanza inglese, insieme al marito e al figlio Marcus, e rimase in Inghilterra fino alla morte, avvenuta nella sua casa di Stepney.Di lei si sa che fu la più famosa miniaturista d'Inghilterra e che si inserì fra due grandi nomi di miniaturisti maschi: Hans Holbein e Nicolas Hilliard. Tra le poche opere di sicura attribuzione c'è la quella riportata sopra: il Ritratto di Lady Katherine Grey che, insieme alle sorelle Jane e Mary, era nipote della sorella di Enrico VIII. Questa miniatura è un acquerello su pergamena preparata a gouache con particolari in rilievo di polvere d’oro. Oltre a quest'opera è noto che l'artista lavorò per Edoardo VI, Maria I (alla quale offrì nel 1556, come dono di Capodanno, una piccola immagine della Trinità) ed Elisabetta I, che ritrasse nel 1551, come si vede nel ritratto sotto (che, tuttavia, è di incerta attribuzione).Attributed to) Levina TeerlincElizabeth I as a Princess, c. 1551. Nottingham, Collection of Welbeck Abbey. Un'altra famosa artista del periodo, sempre delle Fiandre, fu Caterina van Hemessen (1528 - c. 1587), una delle prime artiste fiamminghe di cui si hanno opere sicuramente autografe. Era figlia del pittore Jan van Hemessen, che molto probabilmente fu anche suo maestro. Nel 1554 sposò il musicista Chrètien de Morien e nel 1556 fu invitata, insieme al marito, alla corte di Maria d’Ungheria, trasferita in Spagna dopo l’abdicazione alla reggenza dei Paesi Bassi. Caterina morì ad Anversa nel 1587.Caterina van Hemessen, Self portrait, 1548Basel, Öffentliche KunstsammlungLe sue opere sono per lo più piccoli ritratti femminili (ad eccezione di due dipinti religiosi), tutte eseguite tra il 1548 e il 1552: si presume quindi che la sua carriera si sia conclusa con il matrimonio. A differenza dei ritrattisti fiamminghi di questo periodo, nei cui quadri viene sempre incluso un sfondo paesaggistico a suggerire lo spazio circostante, Caterina si limita al puro ritratto, con sfondi neutri. Solo in due casi i mobili suggeriscono lo spazio in cui si inseriscono le figure, ovvero nell’Autoritratto del 1548 (foto sopra) e nel ritratto di Giovane donna al virginale, sempre dello stesso anno, riprodotto sotto.<. Caterina van HemessenYoung Woman Playing the Virginals, 1548Köln, Wallraf-Richartz Museum. Qui è raffigurata la sorella dell'artista, Cristina, mentre suona questo strumento. I ritratti delle due sorelle hanno la particolarità di avere quasi le stesse dimensioni; inoltre, il fatto che le figure sono rivolte una a destra, l’altra a sinistra, fa pensare che i due quadri fossero stati pensati per essere appesi in coppia.Il Rinascimento nelle Fiandre fu, inoltre, un periodo di grande fioritura musicale e spesso, nei ritratti fiamminghi del Cinquecento, le donne venivano raffigurate mentre suonavano strumenti a tastiera o liuti. In tutte le famiglie colte dell’alta società saper suonare uno o più strumenti era considerata una dote sociale indispensabile, come cantare, danzare, giocare a scacchi. E, una volta tanto, ciò valeva sia per gli uomini che per le donne.Fontihttp://guide.dada.nethttp://cda.morris.umn.edu Sofonisba Anguissola Ritratto di signoraLancut, Poland, Muzeum-ZamekSofonisba Anguissola, Autoritratto1556Sofonisba Anguissola (1535 - 1625) fu una delle prime pittrici a conquistare una certa fama in Europa, sebbene non a livello di artiste salite in seguito alla ribalta (come Artemisia Gentileschi, Rosalba Carriera o Angelica Kaufmann). Tuttavia, fu pur sempre una delle massime esponenti della pittura italiana rinascimentale al femminile. http://www.currenticalamo.com. Sofonisba Anguissola, Partita a scacchi, 1555Poznan, Muzeum Narodowe.http://www.homolaicus.com. Sofonisba Anguissola, Ritratto di dama, 1557(Bianca Ponzoni Anguissola, la madre)Berlino, Statliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie. Primogenita di numerosi figli, soprattutto femmine, Sofonisba nacque a Cremona da due nobili un po' spiantati ma assai colti ed amanti delle arti liberali. Le Sofonisbe - termine coniato da Carlo Emilio Gadda - crebbero insieme, istruite e assecondate a coltivare i rispettivi talenti intellettuali ed artistici (nell'opera riprodotta sopra sono ritratte tre delle sorelle: Europa, Lucia e Minerva insieme alla governante, mentre giocano a scacchi). Per i genitori, la musica, la poesia, l’arte potevano benissimo sposarsi con la maternità, la dedizione ai figli, la cura della casa. Delle numerose sorelle, tuttavia, soltanto Sofonisba riuscì nell'impresa e le sue doti di ritrattista vennero infine riconosciute dai grandi e dai potenti: dal papa a Michelangelo, da Vasari al re Filippo II di Spagna. Sarà proprio il sovrano spagnolo a volerla presso di sé per quindici anni, a partire dal 1559, in veste di dama di compagnia della regina, Isabella di Valois, nonché di ritrattista di corte. http://www.mystudios.com. Sofonisba Anguissola, Ritratto di Filippo II, 1573Madrid, Museo del PradoLe doti artistiche di Sofonisba, del resto, furono evidenti fin da ragazzina: già da allora dimostrava «la freschezza del suo disegnare» (G.Vasari), dedicandosi all'indagine psicologica dei volti. Cresciuta alla scuola del pittore lombardo Bernardino Campi, Sofonisba applicò la propria arte soprattutto nella ritrattistica. Gli studi delle espressioni del riso e del pianto furono decantati persino dal grande Buonarroti, grazie alla sua notevole capacità di penetrare la psicologia dei personaggi che ritraeva, ma anche di se stessa, come si nota nei numerosi autoritratti. http://www.bluffton.edu Bernardino Campi, Il pittore ritrae Sofonisba Anguissola, 1550Donna dalla forte personalità, Sofonisba scelse di dedicare la propria vita all'arte piuttosto che accasarsi, com'era in uso presso le sue contemporanee. Soltanto alla morte della sua protettrice, la regina Isabella di Valois, si decise a lasciare la corte spagnola per sposarsi, pochi anni dopo, con il nobile siciliano Fabrizio de Moncada, insieme al quale si trasferì in Sicilia, a Paternò, nel palazzo di famiglia.Con la morte del marito, avvenuta quattro anni dopo le nozze, Sofonisba lasciò la Sicilia per raggiungere la Liguria. Durante una tappa a Livorno conobbe e sposò in seconde nozze il nobile capitano genovese Orazio Lomellini. Tornata con lui a Palermo, Sofonisba continuò a dipingere nonostante un forte calo della vista, che alla lunga le impedì di continuare ad esercitare la sua arte. Tuttavia, la sua fama era ormai consolidata, tanto che Antoon van Dyck, succedutole come ritrattista ufficiale alla corte spagnola, confessò tutta la propria ammirazione per l'arte di Sofonisba Anguissola, che incontrò personalmente verso la fine della vita della pittrice, nel 1624 a Palermo, presso la corte del viceré di Sicilia Emanuele Filiberto di Savoia. http://www.homolaicus.com Sofonisba Anguissola, Ritratto di famiglia, 1558. Nivaa, Nivaagaards Malerisamling. Ogni opera di Sofonisba era un vero e proprio racconto analitico; come se, pur rispettando i codici della ritrattistica, la pittrice rifiutasse di entrare in un rapporto di pura oggettivazione con i personaggi dipinti ed ingaggiasse con ciascuno di loro - dal re Filippo II al giovinetto Massimiliano Stampa, nonché a se stessa - un rapporto fatto di allusioni, domande e risposte. La critica d'arte Maria Nadotti ha osservato che i quadri di Sofonisba Anguissola sono «piccoli dialoghi teatrali a due o più voci, giocosi e sinceri». Capaci, soprattutto, di portare in scena anche il corpo, spesso assente sulla tela, dell’artista. Lo stesso Vasari ne parla con ammirazione, soprattutto del "Ritratto di famiglia" (riprodotto sopra), dov'è raffigurato il padre che abbraccia l’unico figlio maschio, Asdrubale, ed ignora la figlia Minerva a sinistra. Il quadro è l’emblema della società cinquecentesca: il padre investe le proprie aspettative sul maschio pur avendo quattro figlie piene di talento, riconosciuto persino dai grandi dell’epoca.Sofonisba Anguissola partecipò come figura di spicco alla vita artistica delle corti italiane, grazie anche alla propria competenza letteraria e musicale; ebbe inoltre una fitta corrispondenza con i più famosi artisti del suo tempo. Morì novantenne il 16 novembre 1625 e e fu sepolta nella chiesa palermitana di San Giorgio, da lei stessa affrescata.Fonti:http://www.antrodellasibilla.ithttp://it.wikipedia.org Lucia AnguissolaLa sorella piccola). http://www.mclink.it. Lucia Anguissola, Autoritratto, 1557Milano, Museo del Castello Sforzesco Sorella minore di Sofonisba insieme ad Elena, Minerva, Europa ed Annamaria, Lucia Anguissola (c. 1538 - 1565) fu un'altra pregevole artista della famiglia, anche lei lodata da Vasari. Nell’autoritratto sopra, che rivela evidenti assonanze pittoriche con quelle della sorella maggiore, la posa di tranquilla fanciulla borghese è smentita dalle mani nervosamente contratte – una sul petto e l’altra in grembo, appoggiata su un libro aperto – che lasciano intuire segrete inquietudini. Lo sguardo sembra essersi appena sollevato dal libro, in cui campeggia l’attributo di "vergine" (requisito di illibatezza, come richiedeva il codice morale: requisito indispensabile per una fanciulla che ambiva al matrimonio). L'autoritratto è una sorta di auto-presentazione 'pubblica', che vuole accreditare un’immagine di donna intellettuale, per quanto scevra da ostentazioni celebrative (notare la severità dell’abito scuro, appena mitigata dal colletto bianco e dai polsini di pizzo, e la sobria acconciatura dei capelli, raccolti in una treccia rotonda). Ben poco si conosce della vita di questa artista, dato che non esistono documenti relativi alla sua nascita a Cremona, sebbene la sua morte prematura (morì intorno ai vent’anni) sia tradizionalmente datata 1656. Terza delle cinque sorelle Anguissola, anche la sua attività pittorica risulta alquanto scarna di notizie, dato che soltanto due sono le opere autografe giunte fino a noi, mentre altre sono solo attribuzioni. Si ipotizza che Lucia, incoraggiata dal padre ad assecondare le proprie inclinazioni artistiche, abbia seguito lo stesso apprendistato di Sofonisba nella bottega di Bernardino Campi, dato che i suoi quadri – soprattutto ritratti – sono molto simili a quelli di Sofonisba per tecnica e stile. http://www.bluffton.edu. Lucia AnguissolaRitratto di Piero Manna, Dottore di Cremona, c. 1560. Delle due opere firmate, il Ritratto di Pietro Manna fu espressamente lodato dal Vasari, che ebbe modo di ammirarlo quando visitò la famiglia subito dopo la morte della giovane artista. Il serpente attorcigliato intorno al bastone allude, evidentemente, alla professione di medico della persona ritratta. L’unica altra opera firmata da Lucia è l’Autoritratto milanese del 1557 (all'inizio di questo post), anche se sono quasi certamente suoi anche la Vergine con Bambino, dipinto all'inizio del 1560, e il Ritratto di dama (1556), entrambi conservati a Roma presso la Galleria Borghese. Più incerta, invece, l’attribuzione dell’ovale sotto, che potrebbe essere un’opera di sua mano o un autoritratto eseguito dalla stessa Sofonisba. Due altri ritratti delle sorelle sono conservati al Museo Poldi Pezzoli di Milano (Ritratto di Minerva) e alla Pinacoteca Civica di Brescia (Ritratto di Europa). Attribuito a) Lucia Anguissola Ritratto di Sofonisba, c. 1555Collezione PrivataFontihttp://www.mclink.ithttp://en.wikipedia.orgDiana Scultori GhisiDiana Mantovana). http://imp.lss.wisc.edu. Diana Scultori GhisiLatona dà alla luce Apollo e Diana sull'isola di Delos, c. 1580.Incisione, 25.8x38.4 cm Madison, Wisconsin, Elvehjem Museum of Art. Una delle primissime donne che si dedicò all'incisione fu Diana Scultori Ghisi (1547-1612), meglio nota nella sua epoca come Diana Mantovana, dal nome della città dove nacque. Insieme al fratello Adamo ereditò dal padre, Giorgio Ghisi - rinomato incisore presso la corte mantovana, nonché assistente di Giulio Romano durante il suo soggiorno a Mantova per le decorazioni in stucco di Palazzo Tè - la passione per il disegno; proprio grazie agli insegnamenti paterni si appassionò all'incisione. Quando aveva già raggiunto una discreta fama, a 28 anni si sposò con l'architetto Francesco da Volterra e si trasferì con lui a Roma per ragioni legate alla carriera del marito. Dopo neppure un anno che abitava nella capitale, Diana si avvicinò alla corte papale allo scopo di ottenere il permesso di vendere le sue opere firmandole con il proprio nome. Ottenne ciò che chiedeva senza difficoltà, mostrando numerosi suoi lavori che destarono ammirazione. Le fu quindi concesso di firmare le sue opere come Diana Mantovana e Diana Mantuana. Da vera donna d'affari, a Diana premeva di poter usare il suo nome non tanto per vendere le sue incisioni (che ben poco avrebbero contrubuito a consolidare le finanze familiari), quanto piuttosto per procurare lavoro al marito in forma di commissioni per vari progetti di architettura. Né fu casuale la scelta di non usare il proprio cognome (Scultori o Ghisi) per firmare i suoi lavori, dato che ciò non sarebbe stato di alcun giovamento alla sua affermazione artistica; preferì quindi associare il suo nome di battesimo a quello della corte mantovana. Tuttavia, sebbene le venissero riconosciuti numerosi meriti, sia nel disegno che nella tecnica dell'incisione, la maggior parte dei lavori che produsse derivò da opere di altri. Spesso, anzi, le sue stampe includevano pompose dediche agli artisti originali. Diana Scultori GhisiCristo e l'adultera, c. 1575. Incisione da un quadro di Giulio RomanoFine Arts Museums of San Francisco. Occorre però terner presente che all'epoca di Diana (tardo Cinquecento) l'incisione e l'editoria erano diventati mestieri regolamentati in modo da offrire poche opportunità di libertà artistica. Tutti i testi e le immagini venivano registrati per salvaguardare i diritti dello stampatore originale ed anche per decidere se potevano essere letti o visti dal pubblico. Se la Chiesa considerava eretici determinati testi, gli editori potevano essere scomunicati o multati, oppure perdere le loro proprietà. Diana lavorava muovendosi con attenzione entro i limiti di questi regolamenti, sotto la protezione della casata del marito e del padre, e si costruì col tempo una reputazione di affasciante e dotata "incisora", anche grazie ai suoi modi gentili e aggraziati. http://collectionsonline.lacma.org. Diana Scultori GhisiOrazio Coclite, c. 1588Incisione da un dipinto di Giulio RomanoLos Angeles County Museum of Art. Le stampe di Diana raggiunsero un'immensa popolarità presso i contemporanei; Lavinia Fontana, per esempio, usò una di queste incisioni come base per uno dei suoi dipinti. Se la maggior parte delle opere originali non erano create da Diana, occorre comunque tener presente che la produzione di stampe era un procedimento noioso e faticoso che richiedeva abilità e determinazione. Quindi, nonostante le sue applicazioni commerciali, era una forma d'arte legittima della quale Diana Sultori Ghisi fu grande maestra. http://kobiety-kobietom.comDiana Scultori GhisiDue donne per la strada, c. 1570 - 1580. Incisione da un affresco di Giulio Romano del Palazzo Ducale di MantovaFine Arts Museums of San Francisco. Fontihttp://www.lifeinitaly.comhttp://inky.library.yale.edu. Lavinia Fontana. Lavinia FontanaAutoritratto nello studio, 1579. Ed ecco un'altra pittrice bolognese celebre, Lavinia Fontana (1552-1614), figlia dell’affermato pittore manierista Prospero, che la educò all'arte e fu il suo maestro. Una fortuna nascere a Bologna in quell'epoca, dato che la città era un epicentro culturale ed accademico non solo per gli uomini, ma anche per le donne: ecco spiegata la ragione per cui molte donne artiste del Rinscimento nacquero proprio a Bologna. Attraverso gli insegnamenti paterni, Lavinia sviluppò il proprio talento di pittrice, con un'attenzione particolare ai dettagli (degli abiti, dei gioielli, degli ambienti, ....) propria della pittura fiamminga e ciò fece di lei una delle ritrattiste più apprezzate di Bologna. Così, quando all'età di 25 anni - con una carriera artistica che già si prospettava promettente - andò sposa all'imolese Giovan Paolo Zappi, un pittore di nobile famiglia, pose come condizione di poter continuare a dipingere. E fu assecondata dal marito, nonostante il fatto che dal matrimonio nacquero ben 11 figli. Zappi, rendendosi conto che il proprio talento era assai meno brillante rispetto a quello della moglie, accettò di prendersi cura dei bambini e di amministrare le finanze domestiche. Aiutava anche la moglie facendole da assistente e completando i suoi quadri dipingendo gli sfondi o i particolari dell'abbigliamento delle persone ritratte. Lavinia Fontana, Ritratto di famiglia, XVI secolo. Milano, Pinacoteca Nazionale di Brera. L'aneddoto è riportato nella sua biografia scritta dal canonico Carlo Cesare Malvasia, un canonico bolognese che - sulla scia del Vasari - scrisse varie biografie di artisti della sua città. A prescindere dalla credibilità o infondatezza di quanto riportato dal biografo, possiamo comunque arguire un significativo rovesciamento dei ruoli che regolano il rapporto uomo-donna: Lavinia, "zitella" fino all'età di 25 anni, aveva potuto - grazie alla propria arte - acquistare piena consapevolezza di se stessa e delle personali esigenze. Lavinia Fontana, Autoritratto alla spinetta, 1577,Roma, Accademia di San Luca. Non è un caso, forse, che nei suoi autoritratti l'elemento fisiognomico più penetrante e attraente risulti essere l'occhio; in particolare un occhio, quello in luce, perché l'altro - enigmaticamente - rimane in ombra: probabilmente la postura assunta dall'artista per ritrarsi davanti allo specchio. Il ritratto giovanile raffigurato sopra e conservato a Roma, ce la mostra al clavicembalo, con un'espressione volitiva e sicura. Si suppone che il dipinto sia stato eseguito prima dell'incontro ufficiale con il marito, in occasione della richiesta matrimoniale.Proprio nella ritrattistica, nello studio delle espressioni del volto e nella rappresentazione degli aspetti antropologici determinati dall' abbigliamento o dalla gestualità, la Fontana diede il meglio di sé, dando un'interpretazione del tutto personale dei personaggi, caratterizzati psicologicamente mediante i lineamenti della fisionomia. Ciò si vede anche nelle opere a tema sacro dove, persino nelle tele dell'iconografia tradizionale, come la Crocifissione riprodotta sotto dove, tuttavia, Lavinia riesce a sfuggire ai condizionamenti dello stereotipo e va alla ricerca delle passioni umane accentuate mediante il gioco di sguardi tra i personaggi.Lavinia FontanaCrocefissione, XVI secolo. Bologna, Collegio di San Luigi. Dopo molte riluttanze, a seguito delle insistenze del marito che ne curava l'immagine, tra il 1603 e il 1604 Lavinia accettò di trasferirisi con tutta la famiglia a Roma, dove dipinse per le famiglie Boncompagni, Borghese e Barberini ritraendo ambasciatori, principi e cardinali. Protetta da papa Gregorio XIII, fu addirittura soprannominata "la pontificia pittrice". Oltre alla ritrattistica, un altro dei temi prediletti di Lavinia fu quello mitologico. Pregevole le due tele sotto. Soprattutto la prima, dove Minerva appare completamente nuda, in una posa che esalta le curve del corpo, mentre i connotati della sua identità (scudo, elmo, civetta) sono disseminati nella stanza. Lavinia Fontana, Minerva, 1613, Roma, Galleria Borghese. Lavinia Fontana, Venere e Cupido, 1592, La Fontana meritò dunque un posto di rilievo nella buona società romana e certo fu dotata di grande coraggio: come artista dovette affrontare le nuove mode e le tendenze di pittori più giovani e all'avanguardia; come madre patì la straziante perdita di otto figli, che ci è documentata da un diario di ricordi familiari redatto dal marito, il quale le fu sempre accanto con devoto affetto. http://www.universitadelledonne.it. Lavinia FontanaRitratto di Antonietta Gonzales, c. 1594-95.Blois, Château Fontihttp://www.lifeinitaly.comhttp://www.homolaicus.comhttp://www.bluffton.edu Barbara Longhi. Barbara LonghiLa dama con l'unicorno, c. 1595. Olio su tela, 131,5 x 96,5 cm.Collezione Privata.La ravennate Barbara Longhi, nata nello stesso anno di Lavinia Fontana (1552), era figlia del pittore manierista Luca Longhi. Della sua biografia si hanno poche notizie, dato che la sua carriera artistica si svolse esclusivamente nella provincia di Ravenna ed era pressoché sconosciuta nelle altre città. Si sa comunque che fu il padre a trasmetterle l'amore per l'arte, con un apprendistato durante il quale Barbara gli fece da assistente e, per far pratica, riprodusse numerose sue opere su scala ridotta. Subì anche l'influenza di alcuni dei maggiori pittori contemporanei, soprattutto bolognesi e fiorentini.Specializzata in dipinti di piccolo formato, prediligeva figure femminili, anzitutto sante o madonne: dodici dei quindici suoi dipinti di sicura attribuzione sono infatti a tema religioso e raffigurano madonne col bambino, che Vasari lodò per «la purezza del tratto e la soffice brillantezza dei colori». Barbara LonghiSant'Agnese, XVI secolo. Le sue prime opere sono composizioni semplici, la cui scala cromatica è piuttosto ridotta, mentre nelle pose plastiche prevale una certa linearità di forme. Un esempio è il ritratto di Santa Caterina d'Alessandria, qui sotto (che si ritiene possa essere un autoritratto dell'artista), destinato al monastero ravennate di Sant'Apollinare in Classe. Barbara LonghiS. Caterina d'Alessandria, 1589. Ravenna, Pinacoteca ComunaleDopo il 1590, i colori dei suoi dipinti si fanno più ricchi e brillanti, mentre le figure assumono pose più imponenti e plastiche. Inoltre, comincia ad inserire in secondo piano drappi o tendaggi, spesso avvolti attorno ad una colonna (il che fa supporre influenze di Correggio e Parmigianino), dietro i quali si intrave il cielo oppure fanno capolino paesaggi aperti._Barbara LonghiMadonna della Neve, c. 1580.Cervia, Cattedrale. Barbara LonghiVergine con Bambino addormentato, c. 1600-1605Baltimora MD, Walters A.G. Dopo il 1600, però, abbandona i ritratti a figura intera e tralascia di inserire elementi architettonici o paesaggistici nelle sue opere, per orientarsi verso uno stile più intimista e religioso. La Vergine con Bambino addormentato, qui sopra, è una delle opere dove maggiormente traspare la devozione ed è scarna di quegli elementi tipici del Manierismo. Al contrario, sembra volersi concentrare su una relazione più intima con le figure ritratte: questa, come molte delle sue opere, riflette i profondi ideali religiosi della Controriforma.Barbara Longhi morì nel 1638, all'età di 86 anni.Fontihttp://www.nmwa.orghttp://cgee.hamline.eduhttp://www.highbeam.comhttp://www.italian-art.org http://www.everything2.com MonnalisaMarietta Robusti Tintoretto(La Tintoretta). Attr.)Jacopo TintorettoRitratto di Marietta Robusti, "La Tintoretta", c. 1580. Madrid, Museo del Prado. Marietta di Jacopo Robusti, meglio conosciuta come “la Tintoretta” era figlia dell'illustre pittore veneziano Tintoretto e nacque a Venezia nel 1560. Maggiore di otto figli, era quasi sempre in bottega a fianco del padre, al quale faceva da assistente. Si racconta, anzi, che il genitore le imponesse di vestirsi da uomo per permetterle di accompagnarlo ovunque. Anche altri due figli di Tintoretto, Domenico e Marco, acquisirono una buona fama come pittori, ma il padre aveva per Marietta una vera e propria predilezione e le insegnò tutti i segreti e le tecniche pittoriche, finché la mano della figlia e la sua divennero pressoché indistinguibili. Attr.) Marietta Robusti, "La Tintoretta"Autoritratto, c. 1575. Marietta lavorò sempre a fianco del padre, anche quando cominciò a ricevere commissioni personali per l'esecuzione di ritratti. Ma ben poco delle sue opere sono sopravvissute: oltre a quelle andate perdute, si presume che molte siano state sommerse dalla produzione paterna. I critici contemporanei tendono ad attribuire alla sua mano una sola opera sicura: il “Ritratto di uomo anziano con ragazzo” (cfr. sotto), mentre molte altre sue opere sono probabilmente state attribuite al padre o sono state fatte in coppia con lui. Marietta Robusti, "La Tintoretta"Ritratto di uomo anziano con ragazzo, c. 1585Solo nel 1920 gli studiosi hanno notato in alcuni dipinti una "M", come firma caratteristica di Marietta; ciononostante, dopo la sua morte, così come quando era in vita, è sempre stato difficile distinguere le opere di Marietta da quelle dell’illustre genitore. La giovane fece pratica di pittura soprattutto copiando i dipinti paterni, con particolare predilezione per gli autoritratti e ben presto divenne famosa non solo negli ambienti artistici veneziani, ma anche fuori dall’Italia. Le case reali di Spagna e d’Austria la invitarono espressamente a divenire pittrice di corte, ma Tintoretto impedì sempre a Marietta di partire, così come le impedì di sposarsi e lasciare la sua casa. Acconsentì alle nozze solo quando Jacopo d' Augusta, un gioielliere, accettò di sposare Marietta a condizione di continuare a vivere sotto lo stesso tetto paterno. Attr.) Marietta Robusti, "La Tintoretta"Autoritratto, c. 1580. Firenze, Galleria degli Uffizi. Le nozze di Marietta durarono solo quattro anni, dato che la pittrice morì di parto all’età di 30 anni, nel 1590. Le biografie raccontano che il padre non si riebbe mai da questo dolore fortissimo e fece seppellire la figlia nella cappella di famiglia della chiesa gotica di Santa Maria dell'Orto, a Venezia, nella quale volle che fossero appesi molti dei suoi dipinti. http://about.comhttp://www.lifeinitaly.com In Olanda, tra Rinascimento e Barocco Dopo tante artiste italiane, viene naturale domandarsi quale fosse il quadro nel resto dell'Europa, dove certamente ci furono molte abili donne artiste soprattutto nel tardo periodo rinascimentale, a cavallo tra Cinquecento e Seicento. In Francia, Germania, Olanda, Inghilterra - quindi, soprattutto nel nord Europa - molti talenti femminili emersero in età rinascimentale e barocca e sarebbe impossibile menzionarli tutti. Eccone alcuni esempi tra i più rappresentativi...Clara Peeters (1589-1657)nacque probabilmente ad Antwerp, in Olanda. Della sua biografia si conosce pochissimo, benché sia noto il fatto che ebbe fama precoce: fin dall'adolescenza dipingeva mirabili nature morte, di cui è considerata la pioniera nell'ambito della pittura femminile. Le sue opere, generalmente su piccola scala, riproducevano soprattutto oggetti eleganti o di valore (monete, argenteria, gioelli, cristalli), affiancati a composizioni floreali, frutta, cibo e beveraggi, ripresi in genere su uno sfondo scuro per far meglio risaltare i colori. I criteri di assemblaggio degli oggetti dipinti, infatti, non era mai casuale ma veniva deciso proprio in base ai contrasti cromatici per aumentarne l'impatto visivo.. http://www.csupomona.edu. Clara Peeters, Vanitas, c. 1610Clara Peeters, Natura morta con fiori e frutta, c. 1610. Oxford, Ashmolean Museum. Anna Maria van Schurman (1607-1678).fu certamente una delle donne più colte del suo tempo. Nata in una famiglia benestante, a quattro anni sapeva già leggere e scrivere e fu la prima donna nel suo secolo a frequentare l'università (si isrisse a quella di Utrecht, nel 1613). Durante e dopo gli studi, Anna Maria sviluppò una grande varietà di interessi artistici: dalla letteratura alle scienze, dall'arte pittorica all'incisione, dalla teologia alle lingue straniere (conosceva - tra le altre - il latino, il greco, l'ebraico, l'arabo e l'aramaico).Jan Lievens, Anna Maria van Schurman, 1649. Londra, National Gallery. Maria van Oosterwyck (1630-1693).nata a Nootdrop, era la pia figlia di un predicatore; infarciva i propri dipinti (preziose nature morte, traboccanti motivi floreali) di elementi allegorici, che senza far troppo chiasso nelle stanze di un sovrano, potessero sommessamente ricordargli che tutto è caduco. http://www.royalcollection.org.uk. Maria van Oosterwyck. Natura morta con fiori, insetti e una conchiglia, 1689. London, The Royal Collection © 2007Her Majesty Queen Elizabeth II. Fontihttp://www.xs4all.nlhttp://www.csupomona.edu. Judith Leyster, perla d'Olanda http://www.nga.gov. Judith Leyster, Autoritratto, 1630Washington, DC, National Gallery of Art. Judith Leyster è oggi pienamente riconosciuta dalla critica come "pittrice di genere", nel senso più strettamente olandese del termine. Lo slancio economico, che aveva investito la Repubblica già alle soglie del XVII secolo, infatti, fece sì che la crescente richiesta causasse una ulteriore specializzazione nella produzione. Ciò, di conseguenza, incoraggiava gli artisti a concentrarsi su determinati generi. Tali generi includevano i paesaggi, le vedute urbane, i ritratti, la pittura cosiddetta di storia basata su testi biblici, classici o contemporanei, la pittura di animali, gli squarci di vita quotidiana e, naturalmente, le nature morte. Neppure l’opera della Leyster contravviene a tale regola, coprendo una vasta gamma di interessi: nature morte, scene di vita quotidiana, ritratti, disegni di botanica ed acquerelli.Nata ad Haarlem nel 1609, ancora numerose incertezze persistono riguardo la formazione della pittrice. Una prima ipotesi la indicherebbe dapprima nella bottega di Frans Pieters, che Judith avrebbe poi lasciato per passare sotto l’egida di Frans Hals. L’influenza di questo caposcuola della pittura olandese del Seicento è peraltro alquanto marcata in alcune opere del primo periodo e lo si può vedere fin dalle prime opere pittoriche. Eccone, sotto, un esempio: a sinistra, "La serenata" di Judith Leyster (1629); a destra, il "Buffone che suona il liuto" (1623) di Frans Hals.http://www.eyeconart.net. Due anni più tardi, ancora giovanissima, la pittrice è la prima donna ad essere accolta nella Gilda di San Luca della sua città natale (la corporazione dei pittori). Probabilmente il dipinto con il quale accompagnò la propria candidatura fu invece l’ "Autoritratto" (1631), oggi alla National Gallery di Washington (cfr. opera d'apertura). Quella della Leyster è una nuova formula che, in questo e in altri ritratti, coniuga in modo del tutto inedito la rappresentazione edificante e quella scanzonata dell’essere umano. Infatti, la vediamo seduta davanti al cavalletto, con addosso abiti eleganti e non i panni consunti e intrisi di colore usati per lavorare. Tuttavia, all’autrice preme soprattutto reclamizzare un genere a lei caro, dal momento che sulla tela, appena terminata, è rappresentato un soggetto nel genere comico e, particolare da non trascurare, sorride all'osservatore. La tendenza ad immortalare volti sorridenti era, all’epoca, tutt’altro che una consuetudine. Tuttavia, Frans Hals e il marito di Judith, Jan Miense Molenaer, ritenevano che il ricorso a questi "moti dell’animo" fosse efficace per animare le fisionomie. Judith Leyster, Bambini con gatto e anguilla, 1635Londra, National Gallery. Nel 1636 la Leyster sposò il già affermato pittore Jan Miense Molenaer, dopo di che la coppia si trasferì ad Amsterdam. L’evento comportò un mutamento anche sul piano professionale, oltre che su quello della vita privata. E' plausibile pensare che dietro l’impulso delle inclinazioni del marito, in precedenza suo collega alla Gilda di San Luca, la pittrice si avvicinò maggiormente alle scene di genere raffiguranti la vita dei ceti umili ed ebbe modo di studiare meticolosamente i ritratti eseguiti dal consorte. La Leyster, del resto, è giustamente ricordata per i suoi ritratti. Si tratta di persone comuni, il più delle volte incontrate per strada, eppure rese importanti dal suo modo di stendere il colore, dal gioco di luci ed ombre che trasfiguravano, come per incanto, abiti ordinari e magari consunti in vesti maestose, adeguate alle fattezze traboccanti di espressività dei soggetti. Inoltre, il formato a figura intera conferito a questi personaggi, spesso di bassa estrazione, garantiva un'aura di eroicità ai loro ingenui passatempi, così come alle loro gioie senza pretese. http://www.bestpriceart.com Judith Leyster,L'allegra brigata, 16(?). Collezione Privata. Questa eclettica pittrice, di cui non sono noti disegni preparatori ai dipinti, realizzati perciò direttamente sulla tela, mostra di prediligere la disposizione in diagonale delle sue figure, in modo tale da investirle di uno slancio dinamico. La volontà di far emergere sulla tela la vitalità insita all’essere umano è senza dubbio il movente primario che induce Judith ad intraprendere nelle sue opere una puntigliosa ricerca sugli effetti di luce. Il piano di fondo dei suoi quadri, soprattutto, è costruito su un qualche gioco di luce studiato nei minimi dettagli. Lo studio della luce non può non sortire i suoi risultati più alti nelle scene notturne, memori della lezione dei caravaggisti di Utrecht (Gerard Honthorst ed Hendrick Terbrugghen). Nei dipinti in cui l’unica fonte di luce è costituita dal lume di una candela o dal bagliore di una lampada, come ad esempio il "Giovane che ride con bicchiere di vino" raffigurato sotto, l'atmosfera risulta intima e raccolta, evocata proprio da quel particolare tipo di luce. http://www.wsu.edu Judith LeysterGiovane che ride con bicchiere di vino, 1628Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle In Francia, tra Rinascimento e BaroccoLouise Moillon, La bancarella del mercato Olio su tela, 123 x 169 - Collezione Privata Esther Inglis Kello (1571-1624) nata in una famiglia ugonotta (il suo cognome d'origine era Langlois) è anche nota col cognome del marito, Bartholomew Kello. Costretta a fuggire dalla Francia insieme alla famiglia per sfuggire alle persecuzioni, si rifugiò in Scozia, dove la madre la istruì nell'arte della calligrafia e del disegno. Divenne così abile che la sua fama era ben nota tra l'aristocrazia inglese e scozzese dell'epoca. Da sposata, oltre a fare da scrivana al marito, produsse una serie di libri in miniatura, alcuni dei quali comprendono qualche autoritratto. Esther Inglis, Autoritratto Miniatura, 1615Louise Moillon (1610-1696) è considerata la più grande artista francese di nature morte del secolo in cui visse: nel 1973, una delle sue opere fu battuta all'asta da Sotheby per 120.000 dollari. Louise nacque a Parigi dal pittore Nicolas Moillon; fu tuttavia il suo patrigno, François Garnier (anch'egli pittore) ad iniziarla alla carriera artistica, facendole da maestro. Originaria di una famiglia calvinista di stretta osservanza, si sposò nel 1640 con il ricco mercante Etienne Girardot de Chancourt, anche lui ugonotto. Tuttavia, continuò a coltivare l'amore per la pittura, specializzandosi in nature morte, un genere che a quel tempo non andava per la maggiore. La sua abilità era però tale che fu presto riconosciuta ed apprezzata anche dai contemporanei... e guardando i suoi dipinti, si comprende bene perché.http://www.renownedart.com. Louise MoillonNatura morta con ciliegie, fragole e uva spina, 1630. The Norton Simon Foundation. La sua tecnica era estremamente raffinata e ciò creò, in epoche successive, una certa confusione: i suoi dipinti furono inizialmente attribuiti a pitori olandesi, fiamminghi e persino tedeschi. La staticità delle immagini ritratte dalla Moillon si combina ad un'acuta riproduzione dei particolari e dei colori, che rendono estremamente vividi gli oggetti ritratti; il tutto, reso con un abile gioco di luci ed ombre. La sua tecnica è rimasta infatti unica e non è mai stata superata nei secoli. Nelle sue opere compaiono, occasionalmente, anche figure, nella rappresentazione di scene al mercato, come quella sopra. http://www.wga.hu. Louise MoillonNatura morta con cesto di frutta, c. 1630. Collezione Privata Fontihttp://en.wikipedia.orghttp://womenshistory.about.comhttp://www.wga.hu >Artemisia GentileschiLa vita come un romanzo - Lo stuproArtemisia Gentileschi, Giaele e Sisera, 1620Olio su tela, cm 86 x 125Budapest, Szépmüvészeti Múzeum Artemisia nasce a Roma nel 1593, figlia del pittore Orazio Gentileschi, che all'epoca riscuote un discreto successo. Fin da bambina coltiva l'amore per la pittura e il padre stesso la incoraggia nella scelta, intuendo le sue doti eccezionali: insegnerà perciò a lei il suo mestiere e non agli altri due figli maschi; le trasmetterà il profondo interesse per il Caravaggio (che proprio in questo periodo raggiunge l'apice del successo), il cui stile influenza i lavori del pittore romano. Lo scandalo avviene poco dopo, nel 1611: Orazio intenta una causa contro Agostino Tassi, altro pittore, fidato amico di famiglia nonostante un passato poco raccomandabile. L’accusa è di aver violentato Artemisia più volte: nove mesi, per la precisione. Agostino, che era frequentatore assiduo della casa di Orazio mirava, in realtà, alla figlia di Gentileschi, sebbene non ricambiato. Dopo l'ennesimo rifiuto, una sera la segue nel suo studio dove lei intende dipingere e la aggredisce. Ecco come la stessa Artemisia raccontò l’aggressione durante il processo che ne seguì:«Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne".Artemisia GentileschiSusanna e i vecchioni, 1610Olio su tela, cm 170 x 121Stamford, Lincolnshire, The Burghley House Collection. Dopo averla aggredita, Agostino le ribadisce il suo amore e le promette che la sposerà per rimediare al disonore. Il problema è che il pittore è già sposato (e nel frattempo mantiene anche una relazione con la sorella della moglie, cosa all'epoca considerata incestuosa). Artemisia decide di portare avanti la relazione con lui (non si sa se per questione d'onore o perché sboccia anche in lei un interesse) finché non scopre come stanno le cose e racconta tutto al padre, decisa a regolare i conti. Ha inizio il processo per stupro che si protrarrà per vari mesi; Artemisia è messa a dura prova anche dalla tortura, con lo schiacciamento dei pollici, che avrebbe potuto impedirle di usare le dita per sempre; per una pittrice del suo talento, una perdita irrecuperabile. Tuttavia non demorde e nel 1612 finalmente il processo è vinto: Agostino è condannato a scontare una pena di alcuni anni in carcere. Lo scandalo comunque è scoppiato e l'onore di Artemisia è inevitabilmente infangato, nonostante l'esito del processo. Appena un mese dopo la conclusione della vicenda, Orazio le combina un matrimonio con Pierantonio Stiattesi, un modesto artista fiorentino, che serve a restiruirle almeno in parte uno status di sufficiente onorabilità. Ad Artemisia non rimane che trasferirsi a Firenze ed il distacco dalla famiglia d'origine è duro soprattutto per il padre, morbosamente attaccato alla figlia. E' la sua musa ed è stata la sua modella preferita: tante volte l'ha ritratta nuda (infatti, gli storici hanno ipotizzato un rapporto incestuoso tra padre e figlia) ed ha fatto di lei una pittrice di primo piano. Tuttavia, non c'è scelta ed Artemisia segue il marito, che si rivela col tempo una piacevole sorpresa. La coppia vive in armonia ed ha quattro figli di cui solo una, Prudenzia, vive sufficientemente a lungo da seguire la madre nel ritorno a Roma poi a Napoli.Risale proprio a questo periodo (1615-18) la celeberrima tela, conservata a Napoli, che raffigura la decapitazione di Oloferne (sotto), impressionante per la violenza della scena che raffigura. Il quadro è stato interpretato in chiave psicologica e psicanalitica, come desiderio di rivalsa rispetto alla violenza subita. Un'altra tela quasi identica verrà prodotta nel 1620; rispetto alla prima, sono ancora più evidenti le influenze caravaggesche, nell'uso magistrale del chiaroscuro. Artemisia GentileschiGiuditta che decapita Oloferne, c. 1618.Olio su tela, cm 158,8x125,5Napoli, Museo di Capodimonte. Artemisia GentileschiGiuditta che decapita Oloferne, 1620.Olio su tela, cm 199x162Firenze, Galleria degli Uffizi Artemisia a Firenze (1614-1620). Artemisia GentileschiAllegoria dell'Inclinazione1615-1616.Firenze, Casa Buonarroti A Firenze Artemisia ritrova la tranquillità e riprende a dipingere, elaborando una tecnica che si ispira a quella del Caravaggio e del padre Orazio, suo maestro. Predilige tinte più violente, con le quali crea i suoi magistrali giochi di luce che nei dipinti esaltano i particolari, soprattutto nelle stoffe e nei drappeggi. I personaggi vengono ritratti con maggiore realismo, anche dovuto alle forti tensioni che ha appena vissuto. Intanto, la sua fama cresce e la città le tributa un lusinghiero successo. Viene accettata all'Accademia del Disegno (ed è la prima donna a godere di tale privilegio); intrattiene buoni rapporti con gli artisti più celebrati della città e si conquista favori e protezione di persone influenti, a cominciare dal Granduca Cosimo II de' Medici e soprattutto della granduchessa Cristina. Imbastisce un rapporto di amicizia anche con Galileo Galilei, con il quale rimane in contatto epistolare ben oltre il periodo fiorentino.Tra i suoi estimatori ha un posto di rilievo Buonarroti il giovane (nipote del grande Michelangelo): impegnato a costruire una residenza per celebrare degnamente la memoria dell'illustre antenato, affida ad Artemisia l'esecuzione di una tela destinata a decorare il soffitto della galleria dei dipinti. La tela è l’Allegoria dell'Inclinazione (ossia del talento naturale) e si ritiene che la l’avvenente donna nuda che regge una bussola abbia le fattezze della stessa Artemisia, la quale – come ci trasmettono le notizie “mondane” dell'epoca – è donna di straordinaria bellezza. In effetti, capita spesso che le sembianze delle eroine delle sue tele abbiano le stesse fattezze del volto che poi ritroviamo nei ritratti e negli autoritratti. Spesso, chi le commissiona una tela desidera avere un’immagine che ricordi visivamente l'autrice, la cui fama va crescendo. Il successo ed il fascino che emana, però, sono purtroppo destinati ad alimentare negli anni pettegolezzi ed illazioni sulla sua vita privata.Artemisia Gentileschi. Autoritratto come Allegoria della Pittura, 1638-39. Olio su tela, cm 98.6 x 75.2London, Royal Collection - HM Queen Elizabeth II.Appartengono al periodo fiorentino la Conversione della Maddalena e Giuditta con la sua ancella , oltre alla già citata tela di Giuditta e Oloferne degli Uffizii, mostrata nel post precedente.Artemisia GentileschiConversione della Maddalena, 1630-32. Olio su tela, cm 65.7 x 50.8 Collezione Privata. Nonostante il successo e le numerose commissioni, durante il periodo fiorentino la famiglia Gentileschi è tormentata da problemi con i creditori, a causa di spese sconsiderate di entrambi i coniugi. Inoltre, il rapporto con il marito comincia a mostrare segni di cedimento ed Artemisia fa viaggi a Roma sempre più frequenti. Alla fine, quando il rapporto con il marito appare inevitabilmente compromesso, la pittrice decide di stabilirsi definitivamente a Roma insieme alla figlia Prudenzia, a partire dal 1621.Artemisia GentileschiGiuditta con la sua Ancella, 1612-13.Olio su tela, cm 114 x 93.5 Firenze, Palazzo Pitti. Women In Art. A Roma e a Venezia (1621-1630. Artemisia GentileschiGiuditta e la sua serva con la testa di Oloferne, 1625Olio su tela, 184.1 x 141.6 cm Detroit Institute of Arts. L'arrivo di Artemisia a Roma coincide più o meno con la partenza del padre Orazio per Genova. Si è ipotizzato che l’artista abbia seguito - almeno per un certo periodo - il padre nella capitale ligure, anche per spiegare il perdurare di un’affinità di stile che ancora oggi rende problematica l'attribuzione di alcuni quadri all'uno o all'altra; tuttavia, non esistono sufficienti prove al riguardo.Artemisia, donna indipendente e volitiva, vive dunque a Roma con la figlia Prudenzia, nata dal matrimonio con Pierantonio Stiattesi; qui ha un’altra figlia naturale, nata probabilmente nel 1627, che cerca invano di avviare alla pittura insieme alla sorella maggiore. In questi anni, Roma è una delle mete preferite dei pittori caravaggeschi; ma sotto il il pontificato di Urbano VIII vanno anche affermandosi il classicismo della scuola bolognese e il barocco di Pietro da Cortona. Artemisia GentileschiRitratto di Gonfaloniere, 1622. Olio su tela, cm 208 x 128Bologna, Palazzo D'Accursio. Artemisia dimostra di avere un’adeguata sensibilità nel cogliere il clima artistico che si respira nella capitale, meta di artisti di fama provenienti da tutta Europa. E proprio in questi anni entra a far parte dell'Accademia dei Desiosi; una circostanza che viene celebrata con un ritratto inciso: nella dedica, la qualifica è Pincturae miraculum invidendum facilius quam imitandum. A questo periodo risale anche l'amicizia con Cassiano dal Pozzo, umanista, collezionista e grande mentore delle belle arti.Tuttavia, nonostante l’ottima reputazione artistica e una rete di buone relazioni, il soggiorno nella città natale non è così ricco di commesse come aveva sperato. L'apprezzamento per la sua pittura rimane probabilmente circoscritto alle innegabili doti di ritrattista, mentre le sono precluse le ricche commesse dei cicli affrescati e delle grandi pale d’altare. Difficile, per l'assenza di fonti sufficienti, seguire tutti gli spostamenti di Artemisia in questo periodo. È certo però che tra il 1627 ed il 1630 si stabilisce a Venezia, forse sperando di incrementare le commesse. Artemisia GentileschiEster e Assuero, 1622-1623Olio su tela, 208 x 273cm New York, Metropolitan Museum of ArtCon le dovute cautele, vanno probabilmente attribuiti a questo periodo il Ritratto di gonfaloniere e Giuditta con la sua ancella (sopra), che riflette la sua grande capacità di padroneggiare gli effetti chiaroscurali del lume di candela. Ci sono poi la Venere dormiente oggi conservata a Princeton e la Ester e Assuero di New York. Artemisia GentileschiVenere dormiente con Cupido, c. 1625-30. Virginia Museum of Fine Arts. Napoli e la parentesi inglese (1630-1653). Artemisia GentileschiCorisca e il Satiro, 1630-35. Olio su tela, 155 x 210 cmCollezione Privata. Nel 1630 Artemisia visita Napoli per valutare se la città – meta di pittori di fama e ricca di fervore artistico – possa offrirle nuove e più ricche possibilità di lavoro. E’ di questo periodo l’Annunciazione, oggi al Museo di Capodimonte. Poco più tardi decide di trasferirsi definitivamente nella città partenopea, dove rimarrà – salvo la parentesi inglese e altri trasferimenti temporanei – per il resto della vita. Napoli, pur con qualche rimpianto per Roma, è dunque per Artemisia una sorta di seconda patria: qui trova da maritare bene le sue due figlie e riceve attestati di stima e amicizia, tra cui quelli del viceré, il Duca d'Alcalá. Ha inoltre rapporti di scambio con i maggiori artisti che soggiornano in città e, soprattutto, le viene offerta un’importante commissione: dipingere un ciclo di quadri a carattere religioso, dedicati alla Vita di San Gennaro. Sempre ascrivibili al primo periodo napoletano sono altre opere importanti, come la Nascita di San Giovanni Battista, Corisca e il satiro. Finalmente, ad Artemisia viene offerta la possibilità di spaziare, affrontando soggetti nuovi piuttoso che le solite Giuditte, Susanne, Betsabee e Maddalene penitenti... Artemisia GentileschiNascita di San Giovanni Battista, c. 1635. Olio su tela, 184 x 258 cmMadrid, Museo del PradoNel 1638 l’artista raggiunge il padre a Londra presso la corte di Carlo I, dove Orazio è diventato pittore di corte ed ha ricevuto l'importante incarico di decorare un soffitto nella “Casa delle Delizie” della regina Enrichetta Maria, a Greenwick. Dopo tanto tempo, padre e figlia si ritrovano legati da un rapporto di collaborazione artistica, ma nulla lascia pensare che il motivo del viaggio londinese sia solo quello di un amorevole soccorso all'anziano genitore: Carlo I la reclama alla sua corte ed un rifiuto non è possibile. Il sovrano è un collezionista fanatico, disposto a compromettere le finanze pubbliche pur di soddisfare i suoi desideri artistici. La fama di Artemisia deve averlo incuriosito: non è un caso che nella sua collezione sia presente una tela di Artemisia di grande suggestione, l'Autoritratto come Allegoria della Pittura. L’anno dopo, inaspettatamente, Orazio muore, assistito dalla figlia. Artemisia però rimane a Londra ancora un po’ ed ha modo di lavorare e produrre varie opere, di cui però non esistono attribuzioni certe. Sappiamo che nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, la pittrice ha già lasciato l'Inghilterra, ma poco o nulla si sa degli spostamenti successivi. Nel 1649 eccola di nuovo a Napoli, in corrispondenza con il collezionista Don Antonio Ruffo di Sicilia, suo mentore e buon committente in questo secondo periodo napoletano. L'ultima lettera di Artemisia giunta fino a noi, scritta proprio a lui, risale al 1650 e testimonia come l'artista sia ancora in piena attività, con opere come Susanna e i vecchioni conservata oggi a Brno e una Madonna e Bambino con Rosario. La pittrice si spegne nel 1653, a sessant’anni. Artemisia o Orazio GentileschiMadonna con Bambino, c. 1609Olio su tela, 117 x 100 cmRoma, Galleria Spada. Fontihttp://www.initaly.comhttp://it.wikipedia.orghttp://www.romecity.ithttp://www.url.ithttp://erewhon.ticonuno.it Fede Galizia.Fede Galizia, Giuditta con la testa di Oloferne, 1596Olio su tela, 55 x 42 cmSaratosa, Florida, Ringling Museum of Art Fede Gallizi, più nota come Galizia, nacque a Milano nel 1578. Suo padre, Nunzio Galizia, era un noto miniaturista, che si era trasferito a Milano da Trento. Fede apprese da lui l'arte della pittura e già da adolescente dimostrava un'abilità tale nella ritrattistica da ricevere diverse commissioni. Probabilmente, fu grazie all'influenza paterna che Fede mostrava nelle sue opere un'attenzione particolare ai dettagli, dall'abbigliamento ai gioielli. Ma le furono spesso commissionate anche opere di tema religioso e secolare. Tra i suoi dipinti sono numerosi quelli che illustrano la storia di Giuditta e Oloferne, come quello in apertura (forse il primo, o uno dei primi della serie), che risale al 1596 e, si dice, ritrae il volto dell'autrice nella figura di Giuditta. Lo stile dei ritratti si rifà alla tradizione rinascimentale italiana e tale influenza risulta evidente in numerosi dipinti, come quelli sotto...Fede Galizia, Ritratto di un medico (Ludovico Settala?)Olio su tela, 54x42 cmMilano, Collezione Luigi Koellik. http://www.mclink.it. Fede Galizia, Ritratto di Paolo Morigia, 1596Olio su tela, 88x79 cmMilano, Pinacoteca Ambrosiana.Questo ritratto di Paolo Morigia, gesuita ed uno dei suoi più entusiasti mecenati e sostenitori, fu realizzato nel 1596, quando Fede aveva 18 anni e fu preceduto da un altro ritratto dello stesso Morigia realizzato l'anno prima e andato perduto. Il gesuita milanese, che è qui ritratto mentre, settantenne, scrive una poesia dedicata alla stessa artista, si dichiarò entusiasta di quest'opera.Oltre ai ritratti, Fede Galizia ebbe numerose commissioni da parte di chiese milanesi e realizzò dipinti e pale d'altare come quella sotto, destinata all'altare della chiesa di Santa Maria Maddalena ed oggi sistemata nella chiesa di S. Stefano. Fede Galizia, Noli me tangere, 1616Olio su tavolaMilano, Chiesa di S. Stefano. Oltre a dipingere ritratti e quadri a tema religioso e secolare, Fede Galizia dimostrò anche uno spiccato interesse per le nature morte, genere nel quale è considerata una delle pioniere. Tra i suoi dipinti giunti fino a noi, le nature morte sono le più numerose. Una di queste sue opere, firmata e datata 1602, è considerata la prima natura morta mai realizzata da un artista italiano. http://www.arabafelice.it>Fede Galizia, Natura morta con pesche>Olio su tela Le still life di Galizia, in cui l'influenza di Caravaggio si fonde con la tradizione naturalistica lombarda, presentano il medesimo schema compositivo, dove in primo piano ci appare un vaso con ai lati dei frutti poggiati su un ripiano; il tutto, con grande attenzione all'armonia compositiva, all'assetto cromatico e alla luce. Delle numerose nature morte della pittrice giunte sopravvissute, molte sono purtroppo rovinate da restauri pesanti. http://www.mclink.it. Fede Galizia, Alzata con prugne, pere e una rosa. Bassano del Grappa, Collezione privataFede Galizia visse una vita piena e felice, anche se non si sposò mai; viaggiò molto in varie parti d'uropa (Francia, Spagna, Grecia) ed ebbe grandi soddisfazioni nel suo lavoro. Morì a Milano, di peste, nel 1630.Fontihttp://www.mclink.it http://www.arabafelice.ithttp://en.wikipedia.org Prima di proseguire con la carrellata di donne pittrici, vorrei segnalare il sito di un museo unico nel suo genere: il National Museum of Women in Arts di New York, un ente no profit fondato nel 1980. Si tratta dell'unico museo al mondo esclusivamente indirizzato a raccogliere i contributi delle donne in campo artistico. Per accedere al sito del museo, basta cliccare sulla homepage qui sotto. L'età barocca in Italiahttp://www.italica.rai.it. Giovanna Garzoni, Pere e convolvoli con topo, nocciola e fichiGouache su cartapecora, 23x37 cmCollezione Privata. Le donne pittrici, a causa delle molti limitazioni cui andavano soggette, spesso si dedicavano per ripiego alla miniatura, alla ritrattistica e alle composizioni. In questo caso prediligevano un particolare tipo di natura morta: quella che aveva come soggetti fiori, frutti o piccoli amimali (topi, uccellini, ricci, e così via). Queste composizioni, che avevano un vasto successo di pubblico, assicuravao alle pittrici numerose committenze ed erano particolarmente richieste dalle casate di tutta Europa. Per dipingerle occorreva però una buona mano, una grande attenzione per i particolari ed un certo gusto decorativo. Plautilla Bricci (1616-1690)romana, era figlia del pittore e musicista Giovanni Bricci e sorella di Basilio, anche lui pittore e architetto. Plautilla è la prima donna architetto e per il suo lavoro ricevette numerosi riconoscimenti anche dagli uomini del suo tempo. E' ricordata soprattutto per due committenze importanti, documentate nella storia di Roma, entrambe provenienti da Elipidio Benedetti, che lavorava alle dipendenze del cardinale Mazarino. La prima, del 1663, fu la progettazione e la decorazione di Villa Benedetti, situata fuori città e andata distrutta da un incendio nel 1849. Tuttavia il committente, non volendo ammettere che l'edificio era interamente opera di una donna, attribuì inizialmente il progetto a Basilio, che faceva da assitente a Plautilla. Solo in un secondo tempo, grazie alla manifesta ammirazione di chi visitava la villa, ammise che era opera di Plautilla. Il secondo lavoro, anche questo commissionato da Elpidio Benedetti, fu la decorazione di una cappella nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma. Nella cupola ovale della cappella, decorata nella volta con stucchi e marmi colorati, sopra l'altare c'è un dipinto di Plautilla Bricci che rappresenta S. Luigi IX ed è situato sopra l'altare. Questa è l'unica opera documentata di Plautilla, della cui biografia si conosce tra l'altro pochissimo. Si sa solo che non si sposò e trascorse gli ultimi anni in un convento, dove morì in una data imprecisata dopo il 1690. Giovanna Garzoni (1600-1670).di Ascoli Piceno, è completamente diversa, per stile e soggetti da Plautilla, dato che era soprattutto apprezzata per le raffinate e dettagliatissime composizioni di frutta e di fiori dipinti a guazzo su pergamena. Ebbe importanti committenti, come Cassiano del Pozzo e Anna Colonna Barberini e alla sua morte lascio la propria eredità all'Accademia di San Luca, della quale aveva fatto parte. http://www.museodelterritorio.biella.it. Giovanna GarzoniNatura morta con pesche, pere, conchiglie e tulipani, 1653.Olio su tavola, 51 x 69 cm.Collezione Privata http://www.getty.edu. Giovanna GarzoniNatura morta con vaso di cedri, c. 1640Tempera su velluto, 26 x 35 cm.Mosca, Puskin Museum of Fine Arts.Margherita Caffi (1650-1710)è nota soprattutto per le sue composizioni di frutta e fiori. La pittrice, cremonese di nascita, contribuì infatti all'affermazione di un nuovo genere: le ghirlande di fiori, in mezzo alla quale inseriva volti, animali, fontane. La sua arte fu particolarmente apprezzata da Vittoria Della Rovere ed ebbe tra i propri committenti le principali casate italiane ed internazionali: gli arciduchi del Tirolo (infatti, molti suoi dipinti sono oggi in Austria), i re di Spagna, i granduchi di Toscana, e così via. Gli ultimi anni della sua esistenza li trascorse a Milano, dove diede vita ad una fiorente scuola di pittori di nature morte. Margherita CaffiNatura morta con fiori recisi, c. 1680Firenze, Galleria Palatina.FONTIhttp://www.romecity.ithttp://everything.blockstackers.comhttp://it.wikipedia.orghttp://www.corriereproposte.it Elisabetta Sirani. L'alter ego di Guido Reni. Elisabetta Sirani, Autoritratto, 1658. Mosca, Puskin Museum of Fine Arts. Babbo, è arrivato il Conte, quello vecchio amico tuo, e mi ha regalato della carta regia e un lapis nuovo. Mi ha detto di provare a disegnare un tuo ritratto mentre dipingi. Babbo, tu non vuoi che io faccia la pittrice, lo dici sempre alla mamma, ma a me mi vengono le figure. Dove vai tutto il giorno, tu? Perché non mi porti con te… Vai in piazza, là dove andava Guido. Oggi ho fatto un disegno, ma ho paura di finire quella bella carta nuova, perciò la uso davanti e dietro, così non la spreco. Mi ha detto il conte che qui tutti parlano di Guercino. Non è tuo amico, vero? Dicono che tu eri il prediletto di Guido ma che poi tu l’hai lasciato. Era geloso di te? Io non so cosa vuol dire prediletto, ma vorrei essere la tua prediletta. Ti metto questo foglio sotto il cuscino, tu non farlo vedere a nessuno, nemmeno alla mamma, ma questo suo ritratto somiglia tanto alla Madonna che tu hai di là e che hai copiato da Guido. Ho visto che tu hai finito alcuni suoi quadri quando lui è morto. Guido non sta più in piazza. Passa veloce e va, come il vento. Guido va...». Il Guido di questa lettera è Guido Reni, amico del padre di Elisabetta ed importante figura di riferimento per tutta la sua breve vita, al punto che i due pittori sono sepolti insieme nella cappella Guidotti presso la Basilica di San Domenico, a Bologna. Elisabetta morì a soli 27 anni ed intorno alla sua morte è aleggiato per secoli il sospetto che fosse stata avvelenata dalla governante. In realtà, il decesso fu dovuto ad un’ulcera perforata, ma la lunga agonia alimentò forti sospetti di avvelenamento e tale fu diagnosticata la sua morte dalla medicina coeva, che cosò l’esilio alla governante. Anch’io sto mal, ma lo debbo tenere nascosto. Mi fa male lo stomaco e mi tocca dipingere sempre in piedi. Me ne vorrei andare…». Elisabetta SiraniMelpomene, Musa della Tragedia, n.d.Olio su tela, 87x 72 cm.New York, National Museum of Women in the Arts Nata a Bologna nel 1638, dove morì nel 1665, Elisabetta raccolse l’eredità delle celebri pittrici sue concittadine, come Properzia de' Rossi e Lavinia Fontana, ma anche dei modelli dell’antichità e quelli contemporanei diffusi a Roma, Firenze e Bologna. Dotata di straordinarie capacità artistiche, era considerata una sorta di virtuosa: la sua abilità suscitava tale ammirazione ed incredulità da costringerla a prove pubbliche per tacitare il sospetto che le sue opere fossero dipinte dal padre. Elisabetta collaborava strettamente con il padre, il pittore e mercante d’arte Gian Andrea (1610-1670), il quale all’inizio aveva avversato fortemente la vena artistica della figlia, ma poi – viste le incredibili capacità di Elisabetta – fu lui stesso a curarne l’educazione e la tecnica pittorica. Elisabetta Sirani, Autoritratto, n.d.Olio su rameBologna, Pinacoteca Nazionale. Artista molto precoce, all'età di 17 anni era già una professionista nella pittura e nell'incisione ed aprì un suo studio, dove iniziò la sua breve ma prolifica carriera di pittrice inaugurando persino una scuola, dove numerose aspiranti pittrici apprendevano le tecniche che il padre aveva trasmesso a lei. In soli 27 anni di vita Elisabetta realizzò, insieme alle sue allieve, oltre duecento dipinti e numerose altre opere per committenti privati, ma anche per varie corti reali europee; era così apprezzata che il biografo Malavasia, suo contemporaneo, la descrisse come «… la gloria del sesso femminile, la gemma d'Italia, il sole d'Europa».In un ambiente quasi totalmente appannaggio di artisti maschi, Elisabetta divenne nota per le sue rappresentazioni di temi sacri ed allegorici, nonché per i ritratti di eroine. La sua tecnica era inconsueta per il tempo: realizzava i soggetti con schizzi veloci, quindi li perfezionava successivamente con l'acquarello o la tempera. Su questa sua abilità esistono numerosi aneddoti, come quello di Cosimo III de' Medici che visitò il suo studio nel 1664 per ordinarle una Madonna: l’opera du eseguita in così breve tempo che il granduca poté portarla via con sé.Elisabetta SiraniMadonna con Bambino, 1663.Olio su tela, 86x69 cm.New York, National Museum of Women in the ArtsIl quadro sopra, commissionato da Paolo Poggi, riproduce un momento dolce e intimo di Maria e Gesù: quello in cui il Bambino circonda con una corona di rose il capo della madre. La pittrice usa sottili accorgimenti per rappresentare i personaggi: l’incarnato olivastro della Madonna e le guance paffute e rosee del Bambino, incorniciati da toni di bianco, rosso e blu per far risaltare meglio madre e figlio dallo sfondo scuro. Elisabetta SiraniGiuditta con la testa di Oloferne, n.d. Olio su telaBaltimora, Maryland, Walters Art Gallery.Nell’opera riprodotta sopra, la più drammatica tra quelle della Sirani, torna un tema già rivisitato da altre artiste del Seicento – per esempio, Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi – ma la pittrice bolognese restituisce alla posa dell'eroina quasi una partecipazione distratta al progetto cruento, con la spada appoggiata per terra, mentre riceve l'aiuto della fantesca nel mantenere con le mani la testa decapitata del sovrano. La mitica commistione di eros e thanatos affascinava la pittrice (che dipinse, tra l’altro, anche una Salomè): i documenti dell’epoca ci rimandano l’immagine di una giovane donna dalla personalità romantica e dall’animo tormentato a causa di una presunta, fosca storia d’amore. Nella lettera sotto, tra l'altro, Elisabetta si lamenta anche dei forti dolori di stomaco che l'avrebbero portata alla morte (morì per ulcera perforata)...Dimmelo, dai, Lucia, dimmelo. Sai che non vedo mai nessuno. Ho sentito il babbo che diceva alla mamma che tu hai un fabbro che ti fa la corte che si chiama Giovanni. E poi la mamma ha detto che tu ti acconci i capelli che sembra che sei tu la padrona e dice che così non va. Ho tanto mal di stomaco, Lucia, dammi il tuo pancotto. Mi fa ridere questa storia dei capelli. Dimmelo Lucia se il fabbro è il tuo innamorato. Dimmi se ti vuole sposare. Lavinia Fontana si è sposata e suo padre l’ha anche aiutata. Ma il mio… Tu non te li devi arricciare i capelli, perché li hai già belli. Ti ricordi quanto tempo ci abbiamo messo per farmi i ricci quando mi son dovuta fare l’autoritratto?». Anche se mi piacerebbe continuare a parlare ancora a lungo di questa magnifica pittrice, devo inevitabilmente avviarmi verso la fine, dato che questo post è già lunghissimo…Per concludere, vorrei citare e mostrare un’opera di dubbia attribuzione: il raffinato ritratto di Beatrice Cenci raffigurato sotto, che alcuni critici attribuiscono alla Sirani, altri a Guido Reni. Il ritratto – che fa riferimento alla tragica vicenda di Beatrice, messa in prigione e decapitata nel 1599 – pare risalga al1662 e si baserebbe su incisioni di Beatrice Cenci tramandate dall'epoca della sua morte. Elisabetta SiraniRitratto di Beatrice Cenci, c. 1662.Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica, Palazzo Barberini.FONTIhttp://www.arabafelice.ithttp://www.romecity.ithttp://it.wikipedia.org E' con soddisfazione che vi segnalo questa mostra, che si inaugurerà a Milano tra poco meno di una settimana, perché propone un tema che avevo anticipato su Forumtime quasi un anno fa: un'excursus sulla pittura al femminile nella storia dell'Arte, di cui la mostra di Palazzo Reale tocca il periodo tra il XVI e il XX secolo, vale a dire dal Rinascimento al Surrealismo.L'idea di questa mostra è nata nell'Anno Europeo delle Pari Opportunità con l'intento di valorizzare la donna come pittrice piuttosto che soltanto come soggetto dipinto, assegnandole il ruolo di protagonista della scena artistica a lungo dominata dagli uomini. La mostra si sviluppa lungo un percorso espositivo molto ampio, che comprende circa duecento opere di oltre cento artiste, tra cui Sofonisba Anguissola, Rosalba Carriera, Marietta Robusti Tintoretto, Artemisia Gentileschi, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani, Nathalie Gontcharova, Camille Claudel, Tamara de Lempicka, Frida Kalho... e tante altre. Maria Sibylla Merian. Entomologa per passione, pittrice per caso. Maria Sibylla Merian. La vita avventurosa della pittrice ed entomologa Maria Sibylle Merian (Francoforte, 1647 - Amsterdam, 1717) testimonia un percorso di indipendenza economica e culturale ottenuta attraverso un'attività che si colloca ai confini tra arte e scienza, dato che la sua arte era basata sulla capacità di produrre immagini allo scopo di fornire informazioni scientifiche. Nata a Francoforte sul Meno da un incisore svizzero, Sibylle rimase ben presto orfana di padre. Quando aveva tre anni, sua madre si risposò con Jakob Marell, un pittore specializzato in quadri di fiori. E fu proprio da lui che Sibylle apprese le tecniche del disegno, della pittura ad olio, dell'acquerello e dell'incisione. Fin dall'adolescenza dimostrò uno spiccato interesse per vermi ed insetti, oltre che per le piante di cui essi si cibavano. Ciò, probabilmente, grazie al fatto che suo zio possedeva una piccola industria della seta, dove Sibylle si recava spesso per osservare da vicino il ciclo vitale dei bachi, che la affascinava.Aveva solo tredici anni quando cominciò a dipingere immagini d'insetti e di piante copiandoli direttamente dalla natura... come ci racconta lei stessa nell'Introduzione di uno dei suoi volumi a tema naturalistico, il Metamorphosis insectorum Surinamensium: "In gioventù mi dedicai a ricercare insetti: cominciai con i bachi da seta nella mia città natale di Francoforte. Osservai poi che essi, come altri bruchi, si trasformavano in belle farfalle notturne e diurne. Questo mi spinse a raccogliere tutti i bruchi che potevo trovare per osservarne la trasformazione. Ma, per disegnarli e descriverli dal vero con tutti i loro colori, ho voluto esercitarmi anche nell'arte della pittura». A 18 anni Maria Sibylle si sposò con il pittore Johann Andreas Graff, un allievo del patrigno specializzato in disegni prospettici di architetture. Due anni dopo, la coppia si trasferì a Norimberga, dove nacque la prima figlia e dove Maria iniziò a studiare seriamente gli insetti ed il ciclo vitale di bruchi e farfalle. Era soprattutto incuriosita dalla metamorfosi; quindi, raccoglieva bruchi che poi portava nel suo laboratorio per nutrirli ed osservarne i comportamenti fino alla loro trasformazione in bellissime farfalle. E, naturalmente, queste osservazioni erano altrettanti spunti per produrre splendide tavole dipinte ad acquerello, a margine delle quali a volte annotava alcune osservazioni... La svolta. Georg GsellRitratto di Maria Sibylle Merian, c. 1710. L'abbondante raccolta di disegni (comprese le farfalle che si trovano qua e là in questo topic, prelevate da alcune tavole di Sibylle) costituì la base dei suoi primi due libri. Il primo di questi, pubblicato nel 1675, si intitolava Neues Blumenbuch (Nuovo libro di fiori); una seconda edizione in due volumi uscì nel 1680 con il titolo di Florum fasciculi tres, arricchita con 36 tavole di incisioni colorate di fiori, che mostrano una cura quasi maniacale per i dettagli.Nel 1678 nacque la seconda figlia, Dorothea Henrica, che avrebbe sposato il pittore Georg Gsell (autore del ritratto di Sibylle anziana, sopra) e che sarebbe diventata la principale collaboratrice della madre. Nel 1679 fu pubblicato il secondo libro di Sibylle, Der Raupen wunderbare Verwandlung und sonderbare Blumennahrung (La meravigliosa metamorfosi dei bruchi e il loro singolare nutrirsi di fiori), un testo innovativo dov'erano illustrati gli stadi di sviluppo di 176 specie di farfalle, oltreche le piante dei cui fiori esse si nutrivano. Accanto a ciascuna tavola, erano poi riportate le osservazioni dell'autrice sulla vita di ogni insetto, con una minuziosa descrizione del processo di trasformazione. Nel 1685 la vita di Sibylle subì una svolta, allorché si separò dal marito per entrare a far parte - con la madre e le figlie - di una setta religiosa di integralisti protestanti (i Labadisti), che comportava l'abbandono di ogni ricchezza ed una vita in comunità dedita alla meditazione e al distacco dalle cose del mondo. Sibyille visse in questa comunità - situata nel castello di Waltha, in Olanda - per diversi anni. Il castello era di proprietà di Cornelis van Sommelsdijk, governatore della colonia olandese del Suriname; quindi Sibylle scoprì che nel castello era conservata una preziosa collezione di farfalle tropicali. La sua vita era cambiata, ma non al punto di trascurare l'interesse per gli insetti. Tuttavia, la le rigide regole di vita imposte dalla comunità, la convinsero ad abbandonarla; così, nell'estate del 1691 si trasferì ad Amsterdam. Viaggio in Suriname. Maria Sibylle Merian, Banana. La flora e la fauna dei paesi esotici suscitavano molto interesse negli europei del Settecento, che collezionavano molte rarità provenienti dai viaggi degli avventurosi che si recavano nelle Indie orientali e occidentali. Diversi studiosi, perciò, trovarono facilmente degli illustri mecenati per le loro ricerche. Abbandonata la setta dei Labadisti, presso i quali aveva cambiato vita pur continuando lo studio degli insetti, Sibylle si trasferì ad Amsterdam con le figlie e gestì in proprio la sua attività di illustratrice dal vero. Lo fece così bene da riuscire a realizzare un antico sogno: andare a studiare insetti esotici nel Suriname, una colonia olandese dell’America equatoriale. Partì all'età di 52 anni con le figlie, sostenendo in proprio le spese di viaggio e soggiorno. Pianta di Ananas.E quando, due anni dopo, tornò in Europa dopo aver contratto la febbre gialla, aveva raccolto una tale quantità di osservazioni e di informazioni da poter pubblicare un libro: Metamorphosis insectorum Surinamensium , con 60 tavole di illustrazioni incise su rame. Con quest'opera, che fu accolta con grande entusiasmo, ma anche grazie alla vendita di esemplari riportati in Europa (persino lo zar Pietro il Grande si rifornì da lei per la sua collezione di rarità naturali), Sibylle poté coprire i costi del viaggio, come lei stessa racconta nell'Introduzione al volume... «Realizzando quest’opera, non ho mirato al guadagno, contentandomi di rifarmi delle spese sostenute. Non ho badato a spese per eseguire quest’opera. Ho fatto incidere le tavole da un celebre maestro e ho procurato al libro la carta migliore per portare soddisfazione e piacere non solo agli amatori dell'arte ma anche agli amatori degli insetti e sono felice sentendo di aver raggiunto il mio scopo e di aver loro procurato della gioia» Pianta di Anacardi. Il lavoro compiuto da Sibylla Merian fu davvero notevole, soprattutto perché a quel tempo era a dir poco insolito occuparsi d'insetti (le bestie di Satana!): la metamorfosi degli animali era poco nota, essendo ipotesi corrente che nascessero dal fango. Anche se alcuni eruditi conoscevano il reale processo di metamorfosi, la maggior parte delle persone, anche tra le più colte, lo ignorava. Tuttavia, non fu mai presa troppo sul serio dagli uomini di scienza suoi contemporanei. Il fatto di aver pubblicato Der Raupen wunderbare Verwandlung und sonderbare Blumennahrung in tedesco piuttosto che in latino, per esempio, le aveva procurato una certa notorietà fra i ceti più in alti della società, ma non presso le comunità scientifiche, essendo il latino l'unica lingua accettata in ambito accademico.Tarantole e formiche su un albero di guava. Anche l'iniziativa di intraprendere un viaggio di studio in Suriname fu un'assoluta novità. A quel tempo, chi si interessava di botanica o di entomologia, viaggiava in genere nelle colonie per trovarvi nuovi insetti e farne collezione a scopo commerciale: i viaggi scientifici erano invece estremamente rari. La Merian scoprì in Suriname specie animali e vegetali del tutto sconosciute in Europa, studiandole e rappresentandole nei dettagli:Ho creato una prima classificazione per tutti gli insetti che si sviluppano dalla crisalide, le farfalle diurne e notturne. Una seconda classificazione riguarda i bruchi, i vermi, le mosche e le api. Ho mantenuto il nome delle piante, originarie dell'America, dato dagli indigeni.» Radice di manioca, serpente e falena. I suoi disegni di piante, serpenti, ragni, iguane e coleotteri tropicali sono tuttora considerati dei capolavori e vengono ricercati dai collezionisti di tutto il mondo. Il vocabolo tedesco Vogelspinne, "migala" (letteralmente, ragno-uccello) trae l'origine da un'incisione della Merian, realizzata nei suoi schizzi del Suriname, che rappresenta un grosso ragno che cattura un uccello. Tuttavia, non si conoscono a oggi casi di migale cacciatrici di uccelli.Sofferente di cuore già da tempo, Maria Sibylle Merian morì d'infarto ad Amsterdam, all'età di settant'anni, nel 1717. Frutti della passioneFontihttp://www.universitadelledonne.ithttp://it.wikipedia.orghttp://www.astr.ua.edu Lo stile rococò di Rosalba Carriera. http://upload.wikimedia.org Rosalba Carriera, Autoritratto, c. 1715. Firenze, Galleria degli Uffizi. Una rosa candida che ingentilisce la capigliatura a riccioli e suggerisce il nome, Rosalba; il volto dall'incarnato chiaro, i grandi occhi che guardano diritti l'osservatore, la bocca serrata, una fossetta nel mento; l'abbigliamento con giubbone da artista, la mano che punta il pennello sopra un dipinto raffigurante un'altra giovane donna. E' uno dei numerosi autoritratti che Rosalba Carriera dipinse a pastello, in questo caso su commissione del principe Ferdinando de’ Medici. Si tratta in realtà di una sorta di manifesto programmatico, un biglietto da visita, per illustrare la sua professione di donna pittrice, nonché miniaturista nel '700 a Venezia, mentre ritrae la sorella Giovanna, sua collaboratrice. Rosalba Carriera (Chioggia, 1675 - Venezia, 1757), fu assai famosa già presso i contemporanei, oltre che essere una delle prime artiste europee dell'incipiente stile Rococò. La sua città, Venezia, le ha dedicato una grande mostra nell'agosto scorso presso la Fondazione Cini, in occasione dei 250 anni dalla morte, definendola "prima pittrice d'Europa". Tale fu e venne riconosciuta già nel 1705 da Christian Cole, inglese appassionato d'arte, per la perspicacia nel cogliere l'anima del modello e un uso magistrale della tecnica a pastello, capace di regalare sorprendenti effetti di luce e sfumature ai suoi ritratti. Ben presto, infatti, la la sua fama attraversò le maggiori corti europee ed ogni personaggio di rango di passaggio a Venezia richiedeva una sua opera.Rosalba Carriera, Figura femminile, (particolare)Dublino, National Gallery of IrelandProprio grazie alla sua bravura fu accettata dall'Accademia di San Luca, a Roma, con l'opera raffigurata sotto, "Fanciulla con colomba", grazie anche all'intermediazione del suo amico Christian Cole. Anni dopo, durante il soggiorno parigino entrò inoltre a far parte dell'Accademia Reale di Pittura anche grazie a Pierre Crozat, noto estimatore di quadri nonché amico di Antoine Watteau, che poi divenne anche amico della pittrice.http://www.mclink.it Rosalba CarrieraFanciulla con colomba, 1705Roma, Accademia di S.Luca http://www.reproarte.com Rosalba CarrieraRitratto di Antoine Watteau, 1721Rosalba era figlia maggiore della merlettaia veneziana Alba Foresti, che anzitutto insegnò la propria arte alle figlie: oltre a Rosalba, anche Angela e Giovanna, tutte e tre pittrici per influenza del padre, il pittore Giannatonio Lucovico Lazzari, specializzato in pittura sacra e ritratti pastellati. Grazie a lui Rosalba e le sorelle fecero rapidi progressi nell'acquisizione delle tecniche pittoriche, senza tuttavia trascurare lo studio sulle lingue, delle lettere e della musica. Ma la predilezione di Rosalba andava alla pittura e a questa si dedicò insieme alla sorella Giovanna, sua collaboratrice, con la quale divise anche la vita, dato che entrambe decisero di non sposarsi per coltivare la passione comune per l'arte.Nel 1720, un anno dopo la morte del padre, Rosalba si recò a Parigi con la madre, le sorelle e il cognato, il pittore Antonio Pellegrini. Qui fece i ritratti a tutta la famiglia reale e a diversi personaggi dell'aristocrazia. Nel suo diario, in data giovedì 1 Agosto 1720, si legge: «Ebbi ordine da parte del Re di fare in piccolo il ritratto della Duchessa Vantadour ed in questo giorno ne cominciai uno piccolo dello stesso Re». ://www.snof.org Rosalba CarrieraAutoritratto con corona d'alloro, c. 1745 Dopo qualche tempo tornò in Italia, rimanendo per quattro mesi presso la corte del ducato di Modena, dove fece ritratti a pastello a tutta la famiglia. Fu nominata accademica di merito dalla Accademia di S. Luca di Roma, Bologna e Firenze. Nel 1735 si trasferì a Vienna, dove eseguì vari ritratti degli Asburgo. Ritornò in patria, ma negli ultimi dieci anni della sua vita venne colpita da una grave malattia agli occhi che la portò progressivamente alla cecità. Questa cecità, definita da lei stessa «uno smarrimento totale della ragione», si completò definitivamente nel 1746 con il distacco della retina; un intervento chirurgico migliorò la stuazione solo temporaneamente. Morì a Venezia nel 1757.FONTIhttp://www.lastampa.ithttp://www2.regione.veneto.ithttp://www.fioretombolo.nethttp://www.url.it Dopo parecchio tempo, riprendo questo topic con il profilo di un’altra pittrice, veneziana come Rosalba Carriera anche se non altrettanto famosa e apprezzata. Sia in vita che dopo la sua morte, infatti, questa artista non ebbe mai i riconoscimenti che avrebbe meritato. Solo in questi ultimi anni, con grandi difficoltà anche per le scarse notizie disponibili su di lei, si sta cercando di valorizzarne l’opera e di darle lo spazio che merita.Giulia LamaG. Piazzetta, Ritratto di Giulia Lama, 1715Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza Giulia Lama (Venezia, 1681-1747), figlia del pittore Agostino Lama, che probabilmente la iniziò all’arte e ne coltivò il talento, fu una donna erudita in diversi campi. Le poche notizie sulla sua vita sono anche dovute all’esistenza assai appartata che condusse ed al carattere tendenzialmente schivo. Si sa che fu amica ed allieva del pittore Giovan Battista Piazzetta, il quale le dedicò anche un ritratto (vedi sopra) e ne influenzò lo stile; infatti, alcune opere di Giulia Lama ricordano molto i primi quadri di Piazzetta. Non si sposò mai né si allontanò molto dalla sua città, se non per brevi trasferte non molto lontane da Venezia e legate alla sua attività di pittrice.Come artista è ricordata soprattutto per le gigantesche pale d’altare che dipinse in stile neo-manierista per varie chiese di Venezia, attività fino a quel momento riservata esclusivamente a pittori uomini. Forse anche per questo subì la netta ostilità dei colleghi contemporanei, oltre che per il fatto che fu una delle prime a ritrarre uomini e donne nudi. Fu anche, purtroppo, tra le prime ad essere bersaglio di commenti negativi sul proprio aspetto fisico, già presso i contemporanei. Infatti, nel sottolineare i suoi molteplici talenti, i critici non mancavano mai di sottolineare anche il suo labbro leporino, il naso a patata e il viso scialbo… e non erano gli unici. Ecco cosa scrive l’abate veneziano Antonio Conti a Madame de Caylus, in una lettera datata 1 marzo 1728: «La povera donna è perseguitata dai pittori uomini, ma il suo talento trionfa sopra i nemici. E’ vero che è tanto brutta quanto intelligente, ma parla con tale grazia ed eloquenza che le si perdona facilmente il suo viso. Vive, comunque, una vita assai faticosa». Nella stessa lettera, poco oltre, l’abate Conti aggiunge: «Giulia Lama eccelle sia nella pittura che nella poesia, nella quale riecheggiano locuzioni petrarchesche». In effetti, l’erudizione di Giulia Lama era vasta e comprendeva, oltre la pittura e la poesia, anche la matematica e la filosofia. Era, inoltre, un’abilissima ricamatrice ed arrivò a progettare e realizzare macchinari utili alla lavorazione del pizzo.Giulia Lama, Autoritratto, c. 1725Firenze, Galleria degli Uffizi Le opere pittoriche di Giulia Lama sono caratterizzate da una spiccata predilezione per il chiaroscuro, con numerose scene dove il forte contrasto tra luci ed ombre crea un’atmosfera di drammaticità ed inquietudine. Le figure, illuminate da raggi diagonali, sembrano spesso emergere dalle tenebre, mentre i giochi di luce sui loro volti ne alterano spesso la fisionomia, creando involontari effetti grotteschi; ecco un esempio in questo Ritratto di vecchia con ragazzo:Giulia Lama, Ritratto di vecchia con ragazzo, c. 1735 Molti dei dipinti di Giulia Lama sono a tema religioso, poiché realizzò numerose pale d’altare per varie chiese di Venezia e del nord Italia, di cui pochissime datate. Anche qui prevale la predilezione per il chiaroscuro, come nella composizione Cristo incoronato di spine (Padova, Eremo Camaldolese di Monte Rua), dove le figure maschili parzialmente coperte di drappeggi sono illuminate da una luce tremula che mette in risalto i muscoli dei corpo. Analoghi giochi di luce ad alto effetto drammatico si trovano nel Martirio di Sant’Eurosia (Venezia, Ca' Rezzonico), che potrebbe essere l’abbozzo per una più grande composizione. In quest’opera, la drammaticità della scena in sé – il corpo senza testa della donna, ai piedi dell’uomo che la impugna come un trofeo – è come amplificata dall’intenso chiarore che proviene dall’alto… Giulia Lama, Martirio di Sant’Eurosia, c. 1740Venezia, Ca’ RezzonicoDi molte opere di Giulia Lama parla Anton Maria Zanetti il Giovane, che nella sua “Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia”, pubblicata nel 1733, cita un Sant'Antonio di Padova nell'atto di ricevere il Bambino presso la chiesa di S. Maria dei Miracoli, di un Episodio della vita di San Teodoro nella Scuola omonima, oltre che di un Cristo condotto al monte Calvario (Cristo miracoloso dell'isola di Poveglia), tutti quadri che sono andati perduti nei quali predominavano ancora una volta le atmosfere chiaroscurali. E’ così anche nella Crocefissione, realizzata verso il 1730 e conservata oggi in S. Vitale a Venezia, dove le lame di luce che tagliano i personaggi riuniti attorno alla buia scena della passione, creano bagliori dai quali le figure sembrano emergere come apparizioni fuggevoli.Anziché uniformarsi alle serene armonie del barocco veneto come la sua contemporanea Rosalba Carriera, Giulia Lama preferì ispirarsi d uno stile pittorico assai meno “facile”, anche se questa scelta le costò – in campo artistico – l’emarginazione dei contemporanei e un’aperta ostilità da parte di molti pittori uomini, intolleranti verso il suo genio femminile. Voce fuori dal coro rispetto alle mode estetiche del suo tempo, Giulia Lama si orientò verso lo della tradizione lagunare del tardo Seicento, i cui maggiori rappresentanti – pittori cosiddetti "tenebrosi" come Antonio Zanchi, Giovanni Battista Langetti, Pietro Bellotti, il tedesco Johann Carl Loth – si rifacevano all’eredità pittorica del Tintoretto. Nei loro dipinti, a tema prevalentemente religioso, spiccavano atmosfere cupe e personaggi lividi, nei quali l’opaco pessimismo di Giulia, probabilmente segnato da numerose inquietudini interiori, si rispecchiava perfettamente.Giulia Lama, Giuditta e Oloferne, c. 1730-40Venezia, Ca’ RezzonicoAlle atmosfere simboliche del chiaroscuro si presta anche la rappresentazione dell’episodio biblico di Giuditta e Oloferne, dove la scena è ripresa non nel momento dell’azione o a dramma concluso, bensì nell’istante che precede l’evento di sangue, lasciando drammaticamente emergere i personaggi dal fondo scuro. Giuditta, con le mani giunte e gli occhi rivolti verso l’alto, prega il Signore affinché le dia la forza di portare a termine la sua missione. Segue la scena la serva che la assisterà nell’impresa, che in basso a destra pare emergere dall’ombra. Oloferne, intorpidito dall’alcool, giace addormentato in primo piano, illuminato da una luce estremamente intensa, quasi a voler sottolineare la drammaticità dell’azione imminente.Nonostante molte delle opere di questa artista siano andate perdute, un discreto numero è sopravvissuto fino ad oggi e mi sarebbe piaciuto commentare qualcun altro dei suoi quadri… per esempio, il “Nudo maschile in piedi”, attualmente conservato al Museo Correr di Venezia. Tuttavia, il materiale che su di lei si trova in rete è estremamente scarso ed è già stato faticoso raccogliere le notizie ed i dipinti riportati qui, trovati per la maggior parte su siti in lingua inglese. FONTIhttp://www.editrice-eidos.comhttp://faculty.uml.eduhttp://www.mclink.it Il rococò in Anna Dorothea TherbuschAnna Dorothea Therbusch, Autoritratto, 1780Berlino, Nationalgalerie, Staatliche Museen Anna Dorothea Therbusch (nata Lisiewski) vide la luce nel 1721 a Berlino, in una nota famiglia. Il padre, Georg Lisiewski (1674-1751), di origine polacca, era un pregevole ritrattista approdato in Germania trent'anni prima al seguito dell'architetto di corte J. Friedrich Eosander. Proprio dal padre Anna Dorothea apprese i primi rudimenti della pittura, insieme al fratello e alla sorella maggiore Anna Rosina: ragazzi dotati di vero e proprio talento artistico. Di Dorothea sono giunti fino a noi circa 200 dipinti, 85 dei quali sono ritratti di sicura attribuzione. Nonostante il talento e la passione, Dorothea fu comunque costretta ad abbandonare la pittura per un lungo periodo, in seguito al matrimonio, avvenuto nel 1742, con il locandiere berlinese Ernst Friedrich Therbusch, titolare di un locale, "Il piccione bianco". In seguito alla nascita di numerosi figli, oltre che per aiutare il marito nella gestione del ristorante, Anna Dorothea rinunciò a dipingere fino al 1760 circa. Ma, esauriti i suoi obblighi maritali e ormai «donna miope e di mezza età», abbandonò la famiglia per tornare a dedicarsi alla sua arte. Il ritratto sotto, che raffigura il marito, fu realizzato anni dopo, probabilmente durante il soggiorno parigino dell'artistaAnna Dorothea TherbuschRitratto di Ernst Friedrich Therbusch, c. 1766Berlino, Nationalgalerie, Staatliche Museen La prima testimonianza del ritorno alla pittura risale al 1761, presso la corte del duca Carlo Eugenio di Württemberg, a Stoccarda. Qui, in un breve lasso di tempo, realizzò 18 dipinti per la galleria del castello. Nel 1762 fu nominata membro onorario dell'Accademia delle Arti di Stoccarda e lavorò tra questa città e Mannheim. Anna Dorothea TherbuschGustav Adolf Graf von Gotter as Bacchus, c. 1740-45Heidelberg, Kurpfälzisches Museum Nel 1765 andò a Parigi. La Reale Accademia francese di pittura e scultura decise di esporre le sue opere, fiera di sostenere un'artista femminile. Denis Diderot, il controverso critico e filosofo, le mostrò una tale simpatia da decidere di posare nudo per lei. Infine, Anna Dorothea diventò membro dell'Accademia nel 1767 ed iniziò una relazione con Diderot, incontrando artisti famosi; ritrasse persino il pittore tedesco Philipp Hackert, ma il soggiorno a Parigi fu, globalmente, un insuccesso dal punto di vista artistico, anche se rimase il più creativo per lei. Anna Dorothea TherbuschBaccante, c. 1765Olio su tela, 69,5 x 52,2 cmSan Pietroburgo, State Hermitage Museum. Parigi era una città costosa ed Anna Dorothea incontrò difficoltà finanziarie. Pesantemente indebitata, dal novembre 1768 fino all'inizio del 1769 tornò a Berlino, passando per Bruxelles e i Paesi Bassi, diventando un'acclamata pittrice in Prussia, dove ricevette grandi attestati di stima. Diventò la ritrattista di Federico II di Prussia (Federico il Grande), decorando anche alcune sale del suo nuovo palazzo di Sanssouci con scene mitologiche. Fece inoltre il ritratto ad alcuni esponenti dell'aristocrazia alla corte di Caterina di Russia. Inoltre, incontrò il gruppo di artisti che gravitava intorno a Johann Wolfgang von Goethe. Anna Dorothea TherbuschRitratto di Henriette Herz, 1778 Olio su tela, 75 x 59 cmBerlino, Alte Nationalgalerie Anna Dorothea TherbuschDama in giallo e blu con un cestino di fioriMorì a Berlino all'età di 61 e fu sepolta in una chiesa che venne distrutta durante la Seconda Guerra mondiale, ma la sua tomba rimase intatta. Il suo rapporto con Diderot ispirò il drammaturgo Éric-Emmanuel Schmitt, che scrisse l'opera teatrale Der Freigeist ("Lo spirito libero"), anche conosciuta come Der Libertin ("Il Libertino").Fontihttp://www.artcyclopedia.comhttp://en.wikipedia.org L'età NeoclassicaAngelica KauffmannAngelica Kauffmann, Autoritratto, c. 1770-75Olio su tela, 73,7 x 61 cm.Londra, National Portrait Gallery «La giovinetta di cui parlo è nata a Coira, ma fu condotta per tempo in Italia da suo padre, che pure è pittore; parla assai bene l’italiano e il tedesco. Inoltre, parla correntemente il francese e l'inglese. Si può chiamarla bella e gareggia nel canto con le nostre migliori virtuose. Il suo nome è Angelica Kauffmann». Così, nell'agosto 1764, il grande Johann Joachim Winckelmann scriveva al Sig. Franke a Nötheniz, per parlare di un suo ritratto eseguito da Angelica Kauffmann, ritratto, precisava ancora lo studioso, «fatto da una rara persona, assai valente nei ritratti a olio». In effetti, Angelica fu una geniale ritrattista e divenne un vero e proprio punto di riferimento nel panorama artistico italiano degli ultimi decenni del Settecento. Dipinse un numero considerevole di tele a tema mitologico e storico e fu una delle figure decisive nella svolta astistica verso il Neoclassicismo, che ebbe in due tedeschi italianizzati - Winckelmann e Mengs - i due più importanti artefici. Nella sua produzione, Angelica vagheggiò un neoclassicismo sentimentale e delicatamente, guadagnandosi fama internazionale come testimoniano i frequenti elogi letterari che le furono tributati e le numerose incisioni di traduzione desunte dalle sue opere. Il nostro Ippolito Pindemonte la salutò come la «Saffo de la pittura». A lei, che era stata tra i membri fondatori della Royal Academy di Londra e che aveva meritato il privilegio di essere ammessa alla prestigiosa Accademia di S. Luca, subito dopo la morte fu tributato l'onore di un monumento celebrativo nel Pantheon, accanto a quelle di altri illustri stranieri: Mengs, Winckelmann, Poussin. Angelica Kauffmann Ritratto di Johann Joachim Winckelmann, 1764Olio su tela, 97,2 × 71 cmZürich, KunsthausMaria Anna Angelica Kauffmann di Schwarzenberg, nella Silva di Bregenzer, diocesi di Costanza, per casualità nata a Coira nei Grigioni» nel 1741 - così è scritto nel suo testamento - era figlia d’arte ed aveva ricevuto la sua prima formazione artistica nella bottega del padre, modesto pittore. Una severa preparazione, iniziata con l’apprendistato al seguito del padre e proseguita col perfezionamento della tecnica del disegno presso la storica Accademia del Disegno a Firenze, con lo studio della prospettiva e soprattutto con l’esercizio della riproduzione di dipinti famosi di pittori italiani: Tiziano, Guido Reni, Donato Creti. Ricco di stimoli e di incontri il soggiorno italiano. Passata nell’ambito della fertile vita culturale di Milano, dove fu presente fra il 1753 e il ’61, dimorò a più riprese a Roma, stringendovi amicizia con Winckelmann, Gavin Hamilton, Pompeo Batoni e divenendo, nel 1765, membro dell’Accademia di S. Luca. Parma, Firenze, Venezia, Napoli furono tappe "obbligate" del tour di formazione di questa assidua viaggiatrice che, nel 1766, approdò a Londra. Qui, grazie all’appoggio di Sir Joshua Reynolds direttore dell’istituzione, viene inclusa tra i fondatori della Royal Academy. In Inghilterra, la forte impressione provocata dalla visione dei dipinti di ritrattisti del calibro di Reynolds e di un Gainsborough le fu di stimolo per superare l'oggettività quasi realistica dei suoi primi ritratti per concentrarsi sull'esplorazione psicologica del personaggio. Angelica KauffmannRitratto di sir Joshua Reynolds, 1767Saltram, DevonAngelica KauffmannAutoritratto tra le arti della Musica e della Pittura, c. 1791West Yorkshire, Nostell PrioryAngelica KauffmannVenere indica a Enea e Acate la strada di Cartagine, 1769London, The Royal AcademyAl successo nella vita pubblica, tuttavia, non corrispose, in questo periodo, altrettanta serenità nella vita privata: un matrimonio con un sedicente conte svedese, smascherato poi come impostore, e il successivo annullamento del vincolo le procurarono non poco imbarazzo presso gli ambienti della corte inglese. Fu un momento difficile, superato grazie al successivo matrimonio con il pittore veneto Antonio Zucchi, di età non poco distante dalla sua - lui 50, lei 35 - probabilmente, deciso anche per motivi di convenienza, prima di tornare in Italia. Antonio Zucchi, in seguito, avrebbe rinunciato alla sua carriera per diventare amministratore e impresario della moglie. Angelica KauffmannRitratto di Lady Elizabeth Foster , 1785Ickworth, SuffolkRitorno in ItaliaAngelica Kauffmann, Colore, 1779 Ormai celebre a livello internazionale, tra il 1781 e il 1782 Angelica decise di trasferirsi in Italia con il marito. Per alcuni mesi soggiornò a Venezia, dove giunse nel maggio del 1782 poco prima della morte del suo anziano padre. Nella Serenissima ricevette l'incarico di ritrarre esponenti del patriziato veneziano, tra i quali Andrea Memmo (nominato procuratore di San Marco), più altre committenze del granduca Paolo I di Russia; venne inoltre nominata membro onorario dell'Accademia di belle arti, titolo confertitole da Giandomenico Tiepolo.Da qui, Angelica e il marito si trasferirono a Napoli, dove la pittrice ricevette l'offerta, però declinata, di assumere il ruolo di pittrice di corte. Eseguì comunque un ritratto di re Ferdinando IV (oggi alla Reggia di Capodimonte) e un ritratto di gruppo della famiglia reale. Angelica KauffmannFerdinando IV di Borbone con la sua famiglia, 1783Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Da Napoli, Angelica si trasferì a Roma, che continuava ad essere capitale delle Belle Arti, nonché crocevia di nazionalità e tendenze artistiche e letterarie. Qui, avendo ormai affinato la propria arte pittorica e cultura, aprì il salotto della sua casa di Via Sistina ai personaggi più illustri del tempo, coltivando amicizie vecchie e nuove. Tra queste ultime, c'erano quelle con Antonio Canova e Wolfgang Goethe il quale, nel suo "Viaggio in Italia" definiva Kauffman «la miglior conoscenza che ho fatto a Roma». Infatti, come testimonia il libro a più riprese, la pittrice gli fece da esperta guida nella visita alla capitale, nonché saggia consigliera nello studio dell'arte: «guardar quadri con lei è assai piacevole; tanto educato è il suo occhio ed estese le sue cognizioni di tecnica pittorica; intelligente mediatrice nell’ambiente cosmopolita della città, sempre devotamente amica e spiritualmente vicina», commentò Goethe. Angelica KauffmannRitratto del giovane Goethe, 1787In questo periodo la pittrice svizzera eseguì ritratti a committenti dell'aristocrazia italiana ed internazionale, nonché agli amici Piranesi, Canova, Riffenstein, allo stesso Goethe (che tuttavia non lo apprezzò molto). La sua produzione ritrattistica è stata così copiosa che lei stessa riteneva non valesse la pena di tenerne un’accurata registrazione, tanto da annotare in calce alla sua "Memoria delle pitture" (edito nella versione italiana nel 1998): «Tralascio descrivere la maggior parte dei ritratti». Angelica KauffmannAutoritratto nel costume di Bregenzerwald, 1781Tuttavia, la chiave per capire meglio la sua arte sono proprio i ritratti e soprattutto i numerosi autoritratti, che rappresentano un documento prezioso del suo modo di essere e ancor più dei suoi intenti di artista. Fino a noi ne sono giunti circa una ventina, mentre di altri si ha notizia da varie fonti. In questi, Angelica presenta a volte un'immagine idealizzata di sé, quando si raffigura in veste mitologica, oppure nei panni di pittrice, con cartella e stilo.Sopravvissuta all'occupazione francese di Roma e alla successiva proclamazione della Repubblica Romana, grazie anche alla protezione del generale Laspinasse che risparmiò i suoi beni dal saccheggio, morì nel novembre 1807 dopo una lunga malattia. Fu l'amico Canova ad organizzare la regia dei solenni funerali nella chiesa di Sant'Andrea delle Fratte, dove è attualmente sepolta. L’anno successivo, come confermato da Giovanni Gherardo De Rossi, il suo primo biografo ufficiale, il busto di Angelica venne collocato nel Pantheon (trasferito poi, nel 1820, nella prima sala della Promoteca Capitolina): un solenne omaggio alla memoria di questa grande artista ed al suo ruolo fondamentale nel movimento neoclassico.