Scende la sera, immobili sono i prati. Il gorgogliare del ruscello assetato silente tutto il giorno si leva di nuovo. Abbandonata è la quasi falciata pianura, silenziose le stoppie..........E lontano sul puro orizzonte vedi pulsante per la prima stella il liquido cielo sopra la collina.

venerdì 12 ottobre 2012

sentieri erranti: Lettera di un docente...precario.

sentieri erranti: Lettera di un docente...precario.: Ricevo e pubblico questa lettera di una amica, di una collega, di una precaria. Di una di quelle persone che ogni giorno, per anni, p...

sabato 5 maggio 2012

Ci sono cieli che non cambiano mai ed altri che in poche ore mutano colore e luci ad un ritmo vertiginoso. Questa mattina ore 6.00 colore dominante bianco latte, aria di silenzi e profumatissima, il cielo della notte che lascia a quello del giorno qualche striatura di immobilità. La vita che si risveglia fa da contrappunto al cielo sospeso nel suo respiro. Ore 7.00 si capisce che il sole non si è dimenticato di noi e l'azzurro comincia a declinarsi in tutti i toni dal celeste all'avio. Nuvole all'orizzonte: nessuna. Ore 8.00 un borbottio lontano fa prevedere vento e con lui chiazze di nuvole, cumuli e cirri. Sono ancora lontani quei batuffoli di cotone stropicciati e solo le cime degli alberi secolari cominciano a fremere. Nel sottobosco tutto è calmo. Ore 8.00 comincia a brontolare il tetto, le tegole sono attraversate da raffiche e mulinelli d'aria impazzita e la tenda sul terrazzo sembra una vela tanto si gonfia. Rumore di lamiera che si muove e di voci che cercano di sovrastare il rombo del vento. Sembra una moto appena accesa con il motore ingolfato che piano piano si schiarisce la voce e poi grida assordando anche chi è protetto dal casco. Ore 9.00 il cielo è di un celeste azzurro terso dove le nuvole sembrano lì per una visita casuale, il vento aiuta a liberare l'aria che respiriamo da umidità ed odori. Solo profumi e, le foglie degli alberi per gli scrosci d'acqua dei giorni scorsi sono lucidate e smaltate, brillano e risplendono con guizzi di riflessi simili a cristalli. Una vespa entra in una lanterna di ferro battuto sul davanzale. Istinto omicida latente, nulla a che vedere con la dolcezza che mi ispirano le api! Ore 11.00 il vento è sempre più arrabbiato solo le foglie riescono ad ammansirlo facendogli attraversare la loro superficie come alle lame affilate una pista di pattinaggio. Ma il vento cambia le carte in tavola e scivola via delicatamente come una carezza improvvisa. In alto sopra le punte più alte degli olmi e dei tigli il suo vocione stride con tanta delicatezza e non cessa di intimorire. Ore 12.00 il calore mi porta a desiderare di stendere un bucato, è la giornata perfetta per i panni stesi che volano e si asciugano legati ai fili con mollette coloratissime. Ci ripenso vorrei usare le ore serali del risparmio energetico ma se continua a soffiare in questo modo inquieto cederò allo spreco ed al rialzo della bolletta pur di vedere le lenzuola e gli asciugamani stirarsi al sole e profumarsi d'aria. Peccato che non abbia un prato con vecchi fili appuntati a pali di legno robusto e sbiadito dove, un tempo, ci si poteva divertire a giocare facendo imbufalire le massaie. Ore 13.00 preparo velocemente il pranzo, pasta al sugo, non voglio perdermi neppure un'ore del giorno oggi, irreale giorno di primavera in una pianura imbevuta di umidità fino al midollo e restia a mostrarsi in tutta la sua putrida veste. Sul calendario devo mettere un segno rosso per ricordarmi che le zanzare sembrano appartenere ad altri lidi, oggi non ci sono, il vento e le rondini le hanno minacciate e si sono nascoste. Potrei aprire le finestre ed alzare quei tessuti fitti come i nugoli di insetti in estate, fare entrare aria e vento, spazzare via dalla casa le sciabolate del freddo e dell'umidità patite nei giorni scorsi. Ore 14.00 spalanco le finestre e respiro. Socchiudo gli occhi, sospettosa, annuso l'aria, non sono tranquilla. Il vento aumenta, il tendono sbanda e sbatte contro l'intelaiatura che lo imprigiona, vortici e boati soffusi si mischiano ad una radio accesa ed alla musica di tempi lontanissimi. Vorrei legare il tempo ad una croce e, pregarlo, non farlo scappare via con le correnti roboanti di questa splendida giornata. Come potrei fermare tutti i suoni che investono la mia pelle con ondate di ritmi diversi a seconda dell'ora e delle correnti del cielo. Mi fermo, con le parole cerco di imprigionare ogni senso ed ogni contatto trasmesso via aria al mio sentire. Il tentativo sembrerà patetico e vano ma ci sono giorni in cui il cielo vien voglia di respirarlo tutto e di metterlo in una pennellata od in una parola tanto è avvolgente!
Ci sono poesie che non ti permettono di tentare di scriverne altre per pudore o rispetto. Senti che la magia delle parole è altrove e non in te quindi per onorare coloro che sanno ricamare i sentimenti non prendi ago e filo in mano ma cedi il posto, chiedi ad altri di fare l'orlo ai tuoi pantaloni per non inciampare. Si teme di scarabocchiare su un pezzo di carta con una scrittura incerta segni privi di vita. Ci sono poeti che quando li scopri rimani folgorata ed in quel preciso istante sai che esiste ancora la poesia e chi la usa come linguaggio per tradurre il proprio mondo e quello di chi lo circonda. Le parole si possono memorizzare, imparare a scriverle correttamente, a comprenderne il significato antico, si può imparare a sillabarle per trovarne il ritmo nascosto, i sentimenti invece vanno descritti con precisione e non solo memorizzati o trascritti come una banale lista della spesa. La grammatica e l'analisi logica si possono studiare ma come si studia il modo di esprimere il proprio vissuto senza cadere nei soliti stereotipi che vogliono la rima al posto del senso compiuto, la frase ad effetto piuttosto che il suo divenire? Fortunatamente ci sono gli ammaliatori di parole che tengono fra le dita e fanno uscire dalla propria mente e dal proprio cuore il mondo intero. Come un ordito ne rispettano il disegno e la consistenza, senza strapparne un sol filo, senza sfilacciare il tessuto che veste il mondo interiore. E' un tesoro da accudire l'opera di un ammaliatore di parole e di emozioni, da proteggere e conservare con cura. Alla sera o di giorno quando si ha il tempo di leggere simili tesori, questi diventano anche nostri nel senso fiabesco del termine. Si apre una caverna e non c'è bisogno di trovare la lampada di Aladino per saper cosa desiderare e come ottenerlo! Tutto è lì davanti a te in poche righe. Le poesie che trovo e propongo come lettura sono per me quei tesori svelati più preziosi di un forziere colmo di gioielli o di dobloni, sono la vita che si svela attraverso quella altrui e ci fa sentire meno soli e meno fragili!

Poesie ed altro: CATERINA CHE TORNA DAL BUIO - CRISTIANI SAVERIO

Poesie ed altro: CATERINA CHE TORNA DAL BUIO - CRISTIANI SAVERIO: lunedì, 15 novembre 2010 CATERINA CHE TORNA DAL BUIO - CRISTIANI SAVERIO   Innanzitutto scusatemi per  questa mia assenza, vedrò di farmi pe...

venerdì 4 maggio 2012

- Progetto un mondo - . Progetto un mondo, nuova edizione, nuova edizione, riveduta, per gli idioti, ché ridano, per i malinconici, ché piangano, per i calvi, ché si pettinino, per i sordi, ché gli parlino. . Ecco un capitolo: La lingua di Animali e Piante, dove per ogni specie c’è il vocabolario adatto. Anche un semplice buongiorno scambiato con un pesce, àncora alla vita te, il pesce, chiunque. . Quell’improvvisazione di foresta, da tanto presentita, d’un tratto nelle parole manifesta! Quell’epica di gufi! Quegli aforismi di riccio, composti quando siamo convinti che stia solo dormendo! . Il Tempo (capitolo secondo) ha il diritto di intromettersi in tutto, bene o male che sia. Tuttavia – lui che sgretola montagne, sposta oceani ed è presente al moto delle stelle, non avrà il minimo potere sugli amanti, perchè troppo nudi, troppo avviniti, col cuore in gola arruffato come un passero. . La vecchiaia è solo la morale a fronte d’una vita criminosa. Ah, dunque sono giovani tutti! La Sofferenza (capitolo terzo) non insulta il corpo. La morte ti coglie nel tuo letto. . E sognerai che non occorre affato respirare, che il silenzio senza respiro è una muscia passabile, sei piccolo come una scinitlla e ti spegni al ritmo di quella. . Una morte solo così. Hai sentito più dolore tenendo in mano una rosa e provato maggiore sgomento per un petalo sul pavimento. . Un mondo solo così. Solo così vivere. E morire solo quel tanto. E tutto il resto eccolo qui - è come Bach suonato sul bicchiere per un istante. . - W. Szymborska - (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1° febbraio 2012)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti. (C. Pavese)
Sono di nuovo dal mio amico paralitico. Sorride in quel suo modo tutto particolare: «Non mi ha ancora raccontato nulla dell’Italia». «Sarebbe a dire che dovrei al più presto recuperare il tempo perduto?». Ewald annuisce e già socchiude gli occhi, pronto all’ascolto. Allora comincio: «Ciò che noi percepiamo come primavera, Dio lo vede scorrere sulla terra come un sorriso fugace. La terra sembra ricordarsi di qualcosa di cui narrerà poi a tutti durante l’estate, fino a quando si farà più saggia, durante il grande silenzio autunnale con il quale si confida ai solitari. Tutte le primavere che lei e io abbiamo vissuto, prese tutte insieme, non bastano a colmare un solo istante del tempo di Dio. La primavera di cui Dio deve accorgersi non può rimanere solo sugli alberi e sui prati, deve, in qualche modo, diventare presente nel cuore degli uomini, perché, per così dire, non fluisce nel tempo, ma piuttosto dentro l’eternità e alla presenza di Dio. Quando questo accadde una volta, lo sguardo di Dio con le sue ali scure dovette rimanere sospeso sopra Italia. Al di sotto, la terra era chiara, il tempo risplendeva come oro, ma di traverso sulla penisola si allungava l’ombra scura e pesante di un uomo robusto. Poco distante, davanti a lui, era l’ombra delle sue mani creatrici, inquiete, vibranti: ora protese su Pisa, ora su Napoli, ora fluttuanti sopra l’incerto moto del mare. Dio non riusciva a distogliere il suo sguardo da queste mani che dapprima gli erano apparse giunte, in gesto di preghiera… ma la preghiera che ne scaturiva le spingeva lontano l’una dall’altra. Si fece silenzio nei cieli. Tutti i santi seguivano con lo sguardo Dio e come lui osservavano l’ombra che avvolgeva mezza Italia, mentre il canto degli angeli rimaneva immobile sui loro volti. Le stelle tremavano temendo di aver mancato in qualcosa e attendevano, umilmente, i rimproveri di Dio. Ma non accadde nulla di simile. Sopra l’Italia i cieli si erano dischiusi in tutta la loro vastità, così che a Roma Raffaello era caduto in ginocchio, mentre su una nuvola il beato Fra’ Angelico da Fiesole ne gioiva. Molte preghiere si levarono in quell’ora dalla terra. Ma Dio ne riconobbe una soltanto: la forza di Michelangelo saliva sino a lui come profumo di vigneti. Ed egli lasciò che essa riempisse tutti i suoi pensieri. Si chinò ancor più verso il basso, trovò l’uomo che stava creando, guardò oltre le sue spalle verso le mani che stavano ascoltando la pietra e si spaventò. Vi era forse un’anima anche nelle pietre? Perché quell’uomo spiava la voce delle pietre? Ed ecco che le mani gli si destarono e iniziarono a scavare nella pietra come fosse stata una tomba dentro alla quale tremola una debole voce morente: “Michelangelo” gridò Dio in grande apprensione “chi c’è nella pietra?”. Michelangelo tese l’orecchio, le sue mani tremarono. Poi rispose con voce cupa: “Tu, mio Dio, chi altri? Ma io non posso giungere sino a te” E allora Dio sentì che era anche dentro la pietra e tutto gli apparve pauroso e angusto. Il cielo intero era solo una pietra e lui vi era rinchiuso dentro e sperava nelle mani di Michelangelo che lo liberassero e le sentì giungere, ma erano ancora lontane. Tuttavia il maestro era nuovamente chino sulla sua opera. E continuava a pensare: “Sei solo un piccolo blocco, e un altro farebbe fatica a scoprire una figura umana dentro di te. Ma io qui sento una spalla: è quella di Giuseppe d’Arimatea, e qui Maria si china, sento le sue mani tremanti che sostengono Gesù, nostro Signore, appena spirato sulla croce. Se in questo piccolo blocco di marmo trovano spazio queste tre figure, perché non potrei trarre da una rupe un’intera stirpe dormiente?” E con possenti colpi liberò le tre figure della Pietà, ma da quei volti non tolse del tutto i veli di pietra, quasi temendo che la loro profonda tristezza potesse avvolgere le sue mani, paralizzandole. Così si rifugiò in un’altra pietra. Ma ogni volta rinunciava a dare a una fronte la piena chiarezza, a una spalla la più pura rotondità, e quando creava una figura femminile non posava il sorriso definitivo sulla sua bocca, affinché non ne venisse svelata completamente la bellezza. A quel tempo stava progettando il monumento funebre a Giulio della Rovere. Voleva elevare una montagna sopra la tomba del Pontefice di ferro e scolpirvi sopra un’intera stirpe che la popolasse. Tutto preso da piani ancora oscuri si recò alla sua cava di marmo. Il pendio si snodava lungo un povero villaggio. Incorniciate da olivi e da pietrame antico, le lastre staccate di recente apparivano come un ampio volto pallido sotto una chioma che andava imbiancandosi. A lungo Michelangelo rimase a guardare la fronte di un viso ancora nascosta dal marmo. All’improvviso scorse, lì sotto, due giganteschi occhi di pietra che lo osservavano. E sotto l’influsso di quello sguardo Michelangelo sentì la sua figura crescere sempre di più. Ora si elevò anche lui sopra la terra, ed era come se da un’eternità stesse – da fratello – di fronte a quella montagna. La vallata arretrò dinanzi a lui come davanti a uno che si stia inerpicando, le capanne si strinsero le une alle altre come greggi, e più vicino e familiare apparve allora il volto di roccia sotto bianchi veli di pietra. Aveva un’espressione di attesa, immobile e tuttavia sul punto di muoversi. Michelangelo pensò: “Non ti si può frantumare, tu sei una cosa sola”. Poi alzò la voce: “A te voglio dare una forma, tu sei la mia opera”. E si volse per tornare a Firenze. Vide una stella e il campanile del Duomo. E ai suoi piedi si era fatta sera. Ad un tratto, a Porta Romana, esitò. Le due file di case si protendevano verso di lui simili a due braccia e già lo avevano catturato, traendolo dentro la città. E le viuzze si facevano sempre più strette e colme di crepuscolo, e quando entrò nella sua casa seppe di essere chiuso fra mani buie alle quali non poteva sottrarsi. Si rifugiò nella sala e poi nella piccola stanza, lunga appena due passi, nella quale era solito scrivere. Le pareti gli si appoggiarono addosso ed era come se lottassero con le sue dimensioni smisurate e lo ricacciassero nella vecchia, stretta figura. Ed egli lo accettò. Si piegò sulle ginocchia e si lasciò plasmare da loro. Sentì dietro di sé un’umiltà mai provata sino a quell’istante ed ebbe persino il desiderio di essere in qualche modo piccolo. E giunse una voce: “Michelangelo, chi c’è in te?”. E l’uomo nella minuscola stanza posò la fronte pesante sulle mani e disse sommessamente: “Tu, mio Dio, chi altri?”. Ed ecco farsi spazio intorno a Dio che risollevò liberamente il volto proteso sopra l’Italia e volse lo sguardo intorno: c’erano i santi con mantelli e mitrie e gli angeli incedevano fra le stelle assetate con i loro canti simili a brocche colme di lucente acqua sorgiva, e non vi era limite al cielo». Il mio amico paralitico sollevò gli occhi e lasciò che le nubi della sera li conducessero con sé oltre il cielo. «Dio è dunque là?» Chiese. Tacqui. Poi mi chinai su di lui: «Ewald, siamo noi forse qua?». E ci tenemmo affettuosamente per mano. (R. M. Rilke, Storie del buon Dio)
Nostalgia del presente E in quel preciso momento l’uomo si disse: che cosa non darei per la gioia di stare al tuo fianco in Islanda sotto il gran giorno immobile e condividere l’adesso come si condivide la musica o il sapore di un frutto. In quel preciso momento L’uomo stava accanto a lei In Islanda (J. L. Borges)
Io dissi alla mia anima Taci e lascia che scenda su di te la tenebra Che sarà la tenebra di Dio. Come in un teatro si spengono le luci Per cambiare la scena con cupo rombo D’ali con moto di tenebra Su tenebra E noi sappiamo che le colline e gli alberi Il panorama lontano E l’ardita facciata imponente Tutto viene arrotolato via – O come quando un treno sotterraneo Nella metropolitana si ferma troppo a lungo Tra due stazioni e la conversazione Sorge per poi a poco a poco Perdersi e svanire nel silenzio e vedi Dietro ogni faccia spalancarsi Il vuoto mentale lasciando soltanto Terrore cosciente che non ci sia nulla A cui pensare; o quando sotto l’etere La mente è cosciente ma cosciente Di nulla – Io dissi alla mia anima Stai quieta e attendi senza speranza perché la speranza Sarebbe speranza per le cose sbagliate; attendi Senza amore perché l’amore Sarebbe amore per le cose sbagliate; resta La fede ma la fede e l’amore e la speranza Sono tutti nell’attendere. Attendi Senza pensiero, perché tu non sei pronto Per pensare: così la tenebra Sarà luce, e la quiete la danza. (T. S. Eliot, Quattro quartetti, East Coker, III)