Scende la sera, immobili sono i prati. Il gorgogliare del ruscello assetato silente tutto il giorno si leva di nuovo. Abbandonata è la quasi falciata pianura, silenziose le stoppie..........E lontano sul puro orizzonte vedi pulsante per la prima stella il liquido cielo sopra la collina.

sabato 5 maggio 2012

Ci sono cieli che non cambiano mai ed altri che in poche ore mutano colore e luci ad un ritmo vertiginoso. Questa mattina ore 6.00 colore dominante bianco latte, aria di silenzi e profumatissima, il cielo della notte che lascia a quello del giorno qualche striatura di immobilità. La vita che si risveglia fa da contrappunto al cielo sospeso nel suo respiro. Ore 7.00 si capisce che il sole non si è dimenticato di noi e l'azzurro comincia a declinarsi in tutti i toni dal celeste all'avio. Nuvole all'orizzonte: nessuna. Ore 8.00 un borbottio lontano fa prevedere vento e con lui chiazze di nuvole, cumuli e cirri. Sono ancora lontani quei batuffoli di cotone stropicciati e solo le cime degli alberi secolari cominciano a fremere. Nel sottobosco tutto è calmo. Ore 8.00 comincia a brontolare il tetto, le tegole sono attraversate da raffiche e mulinelli d'aria impazzita e la tenda sul terrazzo sembra una vela tanto si gonfia. Rumore di lamiera che si muove e di voci che cercano di sovrastare il rombo del vento. Sembra una moto appena accesa con il motore ingolfato che piano piano si schiarisce la voce e poi grida assordando anche chi è protetto dal casco. Ore 9.00 il cielo è di un celeste azzurro terso dove le nuvole sembrano lì per una visita casuale, il vento aiuta a liberare l'aria che respiriamo da umidità ed odori. Solo profumi e, le foglie degli alberi per gli scrosci d'acqua dei giorni scorsi sono lucidate e smaltate, brillano e risplendono con guizzi di riflessi simili a cristalli. Una vespa entra in una lanterna di ferro battuto sul davanzale. Istinto omicida latente, nulla a che vedere con la dolcezza che mi ispirano le api! Ore 11.00 il vento è sempre più arrabbiato solo le foglie riescono ad ammansirlo facendogli attraversare la loro superficie come alle lame affilate una pista di pattinaggio. Ma il vento cambia le carte in tavola e scivola via delicatamente come una carezza improvvisa. In alto sopra le punte più alte degli olmi e dei tigli il suo vocione stride con tanta delicatezza e non cessa di intimorire. Ore 12.00 il calore mi porta a desiderare di stendere un bucato, è la giornata perfetta per i panni stesi che volano e si asciugano legati ai fili con mollette coloratissime. Ci ripenso vorrei usare le ore serali del risparmio energetico ma se continua a soffiare in questo modo inquieto cederò allo spreco ed al rialzo della bolletta pur di vedere le lenzuola e gli asciugamani stirarsi al sole e profumarsi d'aria. Peccato che non abbia un prato con vecchi fili appuntati a pali di legno robusto e sbiadito dove, un tempo, ci si poteva divertire a giocare facendo imbufalire le massaie. Ore 13.00 preparo velocemente il pranzo, pasta al sugo, non voglio perdermi neppure un'ore del giorno oggi, irreale giorno di primavera in una pianura imbevuta di umidità fino al midollo e restia a mostrarsi in tutta la sua putrida veste. Sul calendario devo mettere un segno rosso per ricordarmi che le zanzare sembrano appartenere ad altri lidi, oggi non ci sono, il vento e le rondini le hanno minacciate e si sono nascoste. Potrei aprire le finestre ed alzare quei tessuti fitti come i nugoli di insetti in estate, fare entrare aria e vento, spazzare via dalla casa le sciabolate del freddo e dell'umidità patite nei giorni scorsi. Ore 14.00 spalanco le finestre e respiro. Socchiudo gli occhi, sospettosa, annuso l'aria, non sono tranquilla. Il vento aumenta, il tendono sbanda e sbatte contro l'intelaiatura che lo imprigiona, vortici e boati soffusi si mischiano ad una radio accesa ed alla musica di tempi lontanissimi. Vorrei legare il tempo ad una croce e, pregarlo, non farlo scappare via con le correnti roboanti di questa splendida giornata. Come potrei fermare tutti i suoni che investono la mia pelle con ondate di ritmi diversi a seconda dell'ora e delle correnti del cielo. Mi fermo, con le parole cerco di imprigionare ogni senso ed ogni contatto trasmesso via aria al mio sentire. Il tentativo sembrerà patetico e vano ma ci sono giorni in cui il cielo vien voglia di respirarlo tutto e di metterlo in una pennellata od in una parola tanto è avvolgente!
Ci sono poesie che non ti permettono di tentare di scriverne altre per pudore o rispetto. Senti che la magia delle parole è altrove e non in te quindi per onorare coloro che sanno ricamare i sentimenti non prendi ago e filo in mano ma cedi il posto, chiedi ad altri di fare l'orlo ai tuoi pantaloni per non inciampare. Si teme di scarabocchiare su un pezzo di carta con una scrittura incerta segni privi di vita. Ci sono poeti che quando li scopri rimani folgorata ed in quel preciso istante sai che esiste ancora la poesia e chi la usa come linguaggio per tradurre il proprio mondo e quello di chi lo circonda. Le parole si possono memorizzare, imparare a scriverle correttamente, a comprenderne il significato antico, si può imparare a sillabarle per trovarne il ritmo nascosto, i sentimenti invece vanno descritti con precisione e non solo memorizzati o trascritti come una banale lista della spesa. La grammatica e l'analisi logica si possono studiare ma come si studia il modo di esprimere il proprio vissuto senza cadere nei soliti stereotipi che vogliono la rima al posto del senso compiuto, la frase ad effetto piuttosto che il suo divenire? Fortunatamente ci sono gli ammaliatori di parole che tengono fra le dita e fanno uscire dalla propria mente e dal proprio cuore il mondo intero. Come un ordito ne rispettano il disegno e la consistenza, senza strapparne un sol filo, senza sfilacciare il tessuto che veste il mondo interiore. E' un tesoro da accudire l'opera di un ammaliatore di parole e di emozioni, da proteggere e conservare con cura. Alla sera o di giorno quando si ha il tempo di leggere simili tesori, questi diventano anche nostri nel senso fiabesco del termine. Si apre una caverna e non c'è bisogno di trovare la lampada di Aladino per saper cosa desiderare e come ottenerlo! Tutto è lì davanti a te in poche righe. Le poesie che trovo e propongo come lettura sono per me quei tesori svelati più preziosi di un forziere colmo di gioielli o di dobloni, sono la vita che si svela attraverso quella altrui e ci fa sentire meno soli e meno fragili!

Poesie ed altro: CATERINA CHE TORNA DAL BUIO - CRISTIANI SAVERIO

Poesie ed altro: CATERINA CHE TORNA DAL BUIO - CRISTIANI SAVERIO: lunedì, 15 novembre 2010 CATERINA CHE TORNA DAL BUIO - CRISTIANI SAVERIO   Innanzitutto scusatemi per  questa mia assenza, vedrò di farmi pe...

venerdì 4 maggio 2012

- Progetto un mondo - . Progetto un mondo, nuova edizione, nuova edizione, riveduta, per gli idioti, ché ridano, per i malinconici, ché piangano, per i calvi, ché si pettinino, per i sordi, ché gli parlino. . Ecco un capitolo: La lingua di Animali e Piante, dove per ogni specie c’è il vocabolario adatto. Anche un semplice buongiorno scambiato con un pesce, àncora alla vita te, il pesce, chiunque. . Quell’improvvisazione di foresta, da tanto presentita, d’un tratto nelle parole manifesta! Quell’epica di gufi! Quegli aforismi di riccio, composti quando siamo convinti che stia solo dormendo! . Il Tempo (capitolo secondo) ha il diritto di intromettersi in tutto, bene o male che sia. Tuttavia – lui che sgretola montagne, sposta oceani ed è presente al moto delle stelle, non avrà il minimo potere sugli amanti, perchè troppo nudi, troppo avviniti, col cuore in gola arruffato come un passero. . La vecchiaia è solo la morale a fronte d’una vita criminosa. Ah, dunque sono giovani tutti! La Sofferenza (capitolo terzo) non insulta il corpo. La morte ti coglie nel tuo letto. . E sognerai che non occorre affato respirare, che il silenzio senza respiro è una muscia passabile, sei piccolo come una scinitlla e ti spegni al ritmo di quella. . Una morte solo così. Hai sentito più dolore tenendo in mano una rosa e provato maggiore sgomento per un petalo sul pavimento. . Un mondo solo così. Solo così vivere. E morire solo quel tanto. E tutto il resto eccolo qui - è come Bach suonato sul bicchiere per un istante. . - W. Szymborska - (Kórnik, 2 luglio 1923 – Cracovia, 1° febbraio 2012)
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti. (C. Pavese)
Sono di nuovo dal mio amico paralitico. Sorride in quel suo modo tutto particolare: «Non mi ha ancora raccontato nulla dell’Italia». «Sarebbe a dire che dovrei al più presto recuperare il tempo perduto?». Ewald annuisce e già socchiude gli occhi, pronto all’ascolto. Allora comincio: «Ciò che noi percepiamo come primavera, Dio lo vede scorrere sulla terra come un sorriso fugace. La terra sembra ricordarsi di qualcosa di cui narrerà poi a tutti durante l’estate, fino a quando si farà più saggia, durante il grande silenzio autunnale con il quale si confida ai solitari. Tutte le primavere che lei e io abbiamo vissuto, prese tutte insieme, non bastano a colmare un solo istante del tempo di Dio. La primavera di cui Dio deve accorgersi non può rimanere solo sugli alberi e sui prati, deve, in qualche modo, diventare presente nel cuore degli uomini, perché, per così dire, non fluisce nel tempo, ma piuttosto dentro l’eternità e alla presenza di Dio. Quando questo accadde una volta, lo sguardo di Dio con le sue ali scure dovette rimanere sospeso sopra Italia. Al di sotto, la terra era chiara, il tempo risplendeva come oro, ma di traverso sulla penisola si allungava l’ombra scura e pesante di un uomo robusto. Poco distante, davanti a lui, era l’ombra delle sue mani creatrici, inquiete, vibranti: ora protese su Pisa, ora su Napoli, ora fluttuanti sopra l’incerto moto del mare. Dio non riusciva a distogliere il suo sguardo da queste mani che dapprima gli erano apparse giunte, in gesto di preghiera… ma la preghiera che ne scaturiva le spingeva lontano l’una dall’altra. Si fece silenzio nei cieli. Tutti i santi seguivano con lo sguardo Dio e come lui osservavano l’ombra che avvolgeva mezza Italia, mentre il canto degli angeli rimaneva immobile sui loro volti. Le stelle tremavano temendo di aver mancato in qualcosa e attendevano, umilmente, i rimproveri di Dio. Ma non accadde nulla di simile. Sopra l’Italia i cieli si erano dischiusi in tutta la loro vastità, così che a Roma Raffaello era caduto in ginocchio, mentre su una nuvola il beato Fra’ Angelico da Fiesole ne gioiva. Molte preghiere si levarono in quell’ora dalla terra. Ma Dio ne riconobbe una soltanto: la forza di Michelangelo saliva sino a lui come profumo di vigneti. Ed egli lasciò che essa riempisse tutti i suoi pensieri. Si chinò ancor più verso il basso, trovò l’uomo che stava creando, guardò oltre le sue spalle verso le mani che stavano ascoltando la pietra e si spaventò. Vi era forse un’anima anche nelle pietre? Perché quell’uomo spiava la voce delle pietre? Ed ecco che le mani gli si destarono e iniziarono a scavare nella pietra come fosse stata una tomba dentro alla quale tremola una debole voce morente: “Michelangelo” gridò Dio in grande apprensione “chi c’è nella pietra?”. Michelangelo tese l’orecchio, le sue mani tremarono. Poi rispose con voce cupa: “Tu, mio Dio, chi altri? Ma io non posso giungere sino a te” E allora Dio sentì che era anche dentro la pietra e tutto gli apparve pauroso e angusto. Il cielo intero era solo una pietra e lui vi era rinchiuso dentro e sperava nelle mani di Michelangelo che lo liberassero e le sentì giungere, ma erano ancora lontane. Tuttavia il maestro era nuovamente chino sulla sua opera. E continuava a pensare: “Sei solo un piccolo blocco, e un altro farebbe fatica a scoprire una figura umana dentro di te. Ma io qui sento una spalla: è quella di Giuseppe d’Arimatea, e qui Maria si china, sento le sue mani tremanti che sostengono Gesù, nostro Signore, appena spirato sulla croce. Se in questo piccolo blocco di marmo trovano spazio queste tre figure, perché non potrei trarre da una rupe un’intera stirpe dormiente?” E con possenti colpi liberò le tre figure della Pietà, ma da quei volti non tolse del tutto i veli di pietra, quasi temendo che la loro profonda tristezza potesse avvolgere le sue mani, paralizzandole. Così si rifugiò in un’altra pietra. Ma ogni volta rinunciava a dare a una fronte la piena chiarezza, a una spalla la più pura rotondità, e quando creava una figura femminile non posava il sorriso definitivo sulla sua bocca, affinché non ne venisse svelata completamente la bellezza. A quel tempo stava progettando il monumento funebre a Giulio della Rovere. Voleva elevare una montagna sopra la tomba del Pontefice di ferro e scolpirvi sopra un’intera stirpe che la popolasse. Tutto preso da piani ancora oscuri si recò alla sua cava di marmo. Il pendio si snodava lungo un povero villaggio. Incorniciate da olivi e da pietrame antico, le lastre staccate di recente apparivano come un ampio volto pallido sotto una chioma che andava imbiancandosi. A lungo Michelangelo rimase a guardare la fronte di un viso ancora nascosta dal marmo. All’improvviso scorse, lì sotto, due giganteschi occhi di pietra che lo osservavano. E sotto l’influsso di quello sguardo Michelangelo sentì la sua figura crescere sempre di più. Ora si elevò anche lui sopra la terra, ed era come se da un’eternità stesse – da fratello – di fronte a quella montagna. La vallata arretrò dinanzi a lui come davanti a uno che si stia inerpicando, le capanne si strinsero le une alle altre come greggi, e più vicino e familiare apparve allora il volto di roccia sotto bianchi veli di pietra. Aveva un’espressione di attesa, immobile e tuttavia sul punto di muoversi. Michelangelo pensò: “Non ti si può frantumare, tu sei una cosa sola”. Poi alzò la voce: “A te voglio dare una forma, tu sei la mia opera”. E si volse per tornare a Firenze. Vide una stella e il campanile del Duomo. E ai suoi piedi si era fatta sera. Ad un tratto, a Porta Romana, esitò. Le due file di case si protendevano verso di lui simili a due braccia e già lo avevano catturato, traendolo dentro la città. E le viuzze si facevano sempre più strette e colme di crepuscolo, e quando entrò nella sua casa seppe di essere chiuso fra mani buie alle quali non poteva sottrarsi. Si rifugiò nella sala e poi nella piccola stanza, lunga appena due passi, nella quale era solito scrivere. Le pareti gli si appoggiarono addosso ed era come se lottassero con le sue dimensioni smisurate e lo ricacciassero nella vecchia, stretta figura. Ed egli lo accettò. Si piegò sulle ginocchia e si lasciò plasmare da loro. Sentì dietro di sé un’umiltà mai provata sino a quell’istante ed ebbe persino il desiderio di essere in qualche modo piccolo. E giunse una voce: “Michelangelo, chi c’è in te?”. E l’uomo nella minuscola stanza posò la fronte pesante sulle mani e disse sommessamente: “Tu, mio Dio, chi altri?”. Ed ecco farsi spazio intorno a Dio che risollevò liberamente il volto proteso sopra l’Italia e volse lo sguardo intorno: c’erano i santi con mantelli e mitrie e gli angeli incedevano fra le stelle assetate con i loro canti simili a brocche colme di lucente acqua sorgiva, e non vi era limite al cielo». Il mio amico paralitico sollevò gli occhi e lasciò che le nubi della sera li conducessero con sé oltre il cielo. «Dio è dunque là?» Chiese. Tacqui. Poi mi chinai su di lui: «Ewald, siamo noi forse qua?». E ci tenemmo affettuosamente per mano. (R. M. Rilke, Storie del buon Dio)
Nostalgia del presente E in quel preciso momento l’uomo si disse: che cosa non darei per la gioia di stare al tuo fianco in Islanda sotto il gran giorno immobile e condividere l’adesso come si condivide la musica o il sapore di un frutto. In quel preciso momento L’uomo stava accanto a lei In Islanda (J. L. Borges)
Io dissi alla mia anima Taci e lascia che scenda su di te la tenebra Che sarà la tenebra di Dio. Come in un teatro si spengono le luci Per cambiare la scena con cupo rombo D’ali con moto di tenebra Su tenebra E noi sappiamo che le colline e gli alberi Il panorama lontano E l’ardita facciata imponente Tutto viene arrotolato via – O come quando un treno sotterraneo Nella metropolitana si ferma troppo a lungo Tra due stazioni e la conversazione Sorge per poi a poco a poco Perdersi e svanire nel silenzio e vedi Dietro ogni faccia spalancarsi Il vuoto mentale lasciando soltanto Terrore cosciente che non ci sia nulla A cui pensare; o quando sotto l’etere La mente è cosciente ma cosciente Di nulla – Io dissi alla mia anima Stai quieta e attendi senza speranza perché la speranza Sarebbe speranza per le cose sbagliate; attendi Senza amore perché l’amore Sarebbe amore per le cose sbagliate; resta La fede ma la fede e l’amore e la speranza Sono tutti nell’attendere. Attendi Senza pensiero, perché tu non sei pronto Per pensare: così la tenebra Sarà luce, e la quiete la danza. (T. S. Eliot, Quattro quartetti, East Coker, III)
Amo i tuoi occhi, amica mia, E il loro gioco d’incanto e di fuoco, Quando, d’un tratto, tu li sollevi E come un lampo nel cielo Rapida intorno ti guardi… Ma vi è un incanto ancor più intenso; Quando nei tuoi occhi chini, Nel momento del bacio appassionato, Attraverso le tue ciglia abbassate Arde il cupo fuoco del desiderio. (F. I. Tjutčev) *
Io t’incontrai dove la notte confina col giorno; dove la luce suscita le tenebre in alba e l’onde portano il bacio dall’uno all’altro lido. Dal cuore dell’azzurro impenetrabile giunge un aureo appello, e attraverso il crepuscolo di lagrime io tento di fissarti, e non son sicuro di vederti. (R. Tagore)
…Puoi aiutarmi forse? ma esiste un aiuto poi? Vivrò ancora molto …ma vivrò veramente? Oppure il sogno come si è realizzato era il mio unico fugace e breve momento di vita di realtà veramente vissuta e conquistata… …Con grande stupore io guardo indietro alla nostra vita alla nostra realtà precedente e dico a me stessa …abbiamo forse sognato?… Recitato? …O cos’altro diavolo abbiamo fatto mai?.. È questa la vera realtà ed è insopportabile.. Io parlo, rispondo, rifletto, mi vesto, dormo e mangio e un quotidiano costringimento, un’esteriorità strana e insensibile.. Ma dietro questa maschera io piango continuamente.. Piango continuamente per me stessa per non poter essere mai più come prima.. Ciò che è stato non tornerà mai più è finito per sempre distrutto come un sogno.. (I. Bergman, Un mondo di marionette)
La sera era solitaria per me, ed io me ne stavo a leggere un libro, finché il cuore mi divenne arido, e mi parve che la bellezza fosse cosa confezionata dai mercanti di parole. Stanco chiusi il libro e spensi la candela. In un istante la camera si riempì del chiaror della luna. Spirito di bellezza, come potevi tu, che inondi di splendore il cielo, startene nascosto dietro una piccola fiammella di candela? E come le poche parole vane d’un libro potevano sollevare un nembo a velar quella parola che ha colmato d’ineffabile pace il cuor della terra? (R. Tagore)
Anima mia chiudi gli occhi piano piano e come s’affonda nell’acqua immergiti nel sonno nuda e vestita di bianco il più bello dei sogni ti accoglierà anima mia chiudi gli occhi piano piano abbandonati come nell’arco delle mie braccia nel tuo sonno non dimenticarmi chiudi gli occhi pian piano i tuoi occhi marroni dove brucia una fiamma verde anima mia. (N. Hikmet)
Ricordo l’istante incantato: Davanti m’eri apparsa tu, Come fuggevole visione, Come genio di pura bellezza. Nei disperati miei tormenti, Nel chiasso delle vanità, Tenera udivo la tua voce, Sognavo i cari lineamenti. Anni trascorsero. Bufere Gli antichi sogni poi travolsero, Dimenticai la tua tenera voce, I tuoi celesti lineamenti E in silenzio passavo i giorni Recluso nel vuoto grigiore, Senza più fede e ispirazione, Senza lacrime, né vita né amore. All’anima fu dato risveglio: E ancora mi sei apparsa tu, Come fuggevole visione, Come genio di pura bellezza. E nell’ebbrezza batte il cuore E tutto in me risorge già – E la fede e l’ispirazione E la vita e le lacrime e l’amore. (A. Puškin)
[...] Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori. (L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila)
È soltanto un cristianesimo come bellezza, come attrattiva, l’unico in grado di rispondere alla sfida del cuore, l’unico in grado di fare fronte, di affrontare questa esigenza di totalità che il cuore ha, l’unico in grado di vincere la lontananza, se il cuore cede alla sua attrattiva. Senza Cristo non c’è pienezza, e perciò non c’è verginità, che consente un rapporto vero con tutto: con le cose, con le persone, con tua moglie, con i figli, con quelli che lavorano con te, senza che il potere decida tutto. Un rapporto gratuito, un rapporto di una persona affettivamente compiuta, che non usa gli altri per riempire il vuoto che ancora resta. Senza questo è inutile tutto il moralismo, perché prima o poi soccombiamo. Per questo il Papa usa in tante occasioni la parola «attrae»: «Il Dio incarnato ci attrae» e ripete in continuazione il verbo «attrarre», il verbo «attirare». Sant’Agostino dice: «Se il poeta ha potuto dire [cita Virgilio, Ecl. 2 ]: “Ciascuno è attratto dal suo piacere”, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l’uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo». Julian Carròn Si può essere scettici o d'accordo con quanto scritto sopra ma certo non indifferenti sia che nasca un contraddittorio che si resti in silenzio a riflettere!

giovedì 3 maggio 2012

Fire and Grace: Due cure per l’amorePrima:Non vederlo. Non chia...

Fire and Grace: Due cure per l’amore

Prima:
Non vederlo. Non chia...
: Due cure per l’amore Prima: Non vederlo. Non chiamarlo, né scrivergli una lettera. Seconda: Piú semplice. Impara a conoscerlo meglio. ...

Fire and Grace: PoesieMi duole in petto la bellezza: mi dolgono...

Fire and Grace: Poesie


Mi duole in petto la bellezza: mi dolgono...
: Poesie Mi duole in petto la bellezza: mi dolgono le luci nel pomeriggio arrugginito; mi duole questo colore sulla nube – viola plumbe...

Poesie ed altro: ARTICOLI: STORIA A RITROSO DI UNA CHIOCCIOLA di LU...

Poesie ed altro: ARTICOLI: STORIA A RITROSO DI UNA CHIOCCIOLA di LU...: domenica, 04 luglio 2010   ARTICOLI: STORIA A RITROSO DI UNA CHIOCCIOLA di LUCIO   Ho l'onore (ed il privilegio) di ospitare nel mio blo...

Poesie ed altro: ARTICOLI: IL PIANETA VULCANO

Poesie ed altro: ARTICOLI: IL PIANETA VULCANO: sabato, 14 agosto 2010   ARTICOLI: IL PIANETA VULCANO   Come avrei potuto lasciarmi sfuggire un articolo su Vulcano e la mia serie di tele...
Alla bambina che sono stata, a quella che vedo vivere e trasformarsi in mia figlia. Al padre, puro istinto di sopravvivenza, alla madre, dolce e generosa. Ai sogni che non sono stati trasmessi a quelli che sono stati partoriti, alla natura ed allo spirito che fanno parte o combattono dentro di noi, al microcosmo della famiglia ed al macrocosmo dell'universo. Agli stravolgimenti di un giorno, agli incantamenti di un'ora, alla spontaneità delle visioni ed al suono delle voci, a quei momenti che ancora risuonano come un'eco lontana ma allo stesso tempo vicinissima. Le grandi domande sulla vita spesso trovano risposta nell'erba che cresce o in un fiore che marcisce in un vaso, la natura viene ripresa dai nostri sguardi, le creature sono percepite da tutti i sensi e poi si cresce, aumenta l'altezza e la vertigine che si prova è immensa. Si scoprono le menzogne degli adulti che vengono propinate ai bambini, ci si arrabbia per quelle menzogne un tempo verità assolute, si tenta di trasformarle in certezze, di dargli un fondamento scientifico. A volte ci si riesce, altre no! L'equilibrio raggiunto dalla risposta alla domanda: "Che persona voglio essere?". Le spiegazioni date e la bellezza dell'accettazione della vita e della morte sono una ricerca che spesso rimane tale! A quella bambina chiedo scusa e dico: "grazie!"
Sono sempre più stupita dalle malformazioni sentimentali che superano quelle fisiche. Non ci sono protesi per aggiustarle, men che meno personalizzate e leggere, capaci di far riprendere il cammino a qualsiasi rapporto umano. Ho visto segare arti, letteralmente segarli, in sala operatoria, a donne anziane e giovani. Non sapevo allora che l'arto tagliato andava messo in un sacco speciale ed inviato all'inceneritore come gli altri rifiuti speciali. Il lavoro paziente del chirurgo per ricucire tutti i vasi e sistemare la pelle sotto il ginocchio come fosse un orlo da rifinire, era una meraviglia per me che amavo la chirurgia e le sue implicazioni nel rinnovare sia la qualità che la durata della vita di un essere umano. Certo non potevo scendere in dettagli da far svenire o vomitare i più sensibili ma tentavo comunque di far comprendere come il nostro corpo si possa aggiustare mentre l'anima è meno disponibile a ricevere simili interventi. Ci sono medici che usano la parole, altri i farmaci, altri ancora i fiori e le preghiere, la meditazione ed il training autogeno, ognuno trova medicamenti e terapie adatte ed efficaci a suo dire. Tuttavia non è come ricucire una gamba o l'addome ferito da un manubrio di una motocicletta, con l'anima si deve essere più accorti sia nel curarla che nell'evitare di danneggiarla. Ho visto una madre trascorrere notti insonni a parlare alla figlia per farla uscire da uno stato di torpore apparente dovuto a un dolore talmente acuto da paralizzare perfino le sue funzioni vitali. Con quelle parole, quei ricordi, quelle carezze, con racconti e aneddoti, con una pazienza infinita, risvegliò da quel torpore mortale la ragazza. Gli analisti di ogni scuola avrebbero pagato qualsiasi cosa per conoscere il detto ed il non detto di quella terapia che tale non sapeva neppure di esserlo. Ho visto la tenacia dell'amore non cedere di fronte all'evidenza della morte, annunciata da odori e rantolii, ho visto parlare persone con i propri cari perfino dopo il decesso, non coscienti oppure talmente sicuri della vita che scorreva ancora nelle loro vene da non immaginare che quella stessa corrente potesse interrompersi nei vasi sanguigni di coloro che amavano. Negavano l'evidenza a se stessi e doverli allontanare da quel letto per registrare legalmente i dati del decesso era faticoso ed avvilente. Dover aprire gli occhi a chi gli occhi non cessava di vederli aperti, chiuderli a coloro che non li avrebbero più aperti, quella era la parte più difficile del mio "lavoro". Una notte ho perfino sbagliato a definire il rapporto di parentela dando inizio ad una serie di equivoci da commedia dell'arte. Ho fatto le condoglianze alla moglie del defunto definendola madre, non contenta quando mi ha corretto senza precisare il suo ruolo, ho continuato definendola sorella. Tale era il suo dolore che non mi ha investito ne insultato e da allora mi sono guardata bene dal definire cosa fossero o non fossero i parenti dei pazienti deceduti, chiamandoli semplicemente: "Lui" o "Lei". Un padre, non lo dimenticherò mai: alto un metro e novanta, magrissimo, sembrava una canna mossa dal vento del dolore, pronta a piegarsi ed a spezzarsi. Parlava con la figlia, appena deceduta, come fosse pronta a replicare, usava un tono dimesso ed è riuscito anche a spaventarmi, temevo che morisse di infarto per il dolore provato. Non fumo ne bevo caffè, ma quella notte ho preparato una tazza di caffè per quell'uomo e gli ho chiesto se voleva fumare chiedendo ad un mio collega, allibito, di consegnarmi il suo pacchetto di sigarette e l'accendino. Ha bevuto volentieri il caffè, non era un fumatore. Ho smesso da tempo di lavorare in quel reparto, l'ultima volta che ho trascorso una notte con una paziente in fin di vita aiutandola a sedersi ed a respirare per 10 ore consecutive, aiutata sia dalla madre che dalla sorella oltre che da un collega, al mattino, smontante notte, mentre lei moriva io rimanevo incinta. Ho cambiato subito reparto, agli infettivi non fanno lavorare le donne in gravidanza. Non c'è morte ch'io non abbia vissuto privandola di quel peso greve e colmo di significati più o meno religiosi che la mia assistenza non poteva contemplare, perchè non utili ne necessari. Bastava esserci, donare dignità, esserci con tutta me stessa, per accompagnarli anche solo con una stretta di mano od una carezza, un camice pulito od il viso rinfrescato, in quel viaggio che comprende il primo ed il nostro ultimo respiro; a me era riservata la cura e l'assistenza dell'ultimo! Quando affermo che non temo la morte ma solo le complicazioni più o meno dolorose di quegli ultimi istanti,non è un modo di dire o di apparire coraggiosa. C'è un verso di John Donne che dice: " ....e morte, sarai tu a morire" So cosa vuol dire, ed il mio lavoro mi ha donato proprio la comprensione di quel verso con la pratica e la quotidiana testimonianza di quel momento senza il quale nulla avrebbe senso e stupore infinito, men che meno tutto ciò che lo precede! E qualsiasi cosa ci sia ad attenderci, il nulla od il tutto, è un momento del viaggio imperdibile, nel senso stretto della parola. Un momento da non identificare con immagini lugubri, teschi, femori e falci per esempio, oppure evanescenti e nebulose iconografie che sono solo interpretazioni e non hanno attinenza con la realtà. Riporto delle immagini dal cimitero del Pere Lachaise a Parigi, in quelle mi riconosco ed ognuno di noi ha le sue!
L'altro ieri mio padre ha preparato il mio piatto preferito: polpette! Mia figlia guardava estasiata il suo affacendarsi ai fornelli. Il risultato non è stato all'altezza ma le abbiamo mangiate come se fossero le prime polpette assaggiate nella nostra vita. Ha esagerato con l'aglio e questa mattina sembravamo uscite da un viaggio gastronomico nei paesi della ex Yugoslavia. Mi sono ricordata i treni che provenivano da quelle zone, stipati di carne umana pronta per essere usata in Svizzera o Germania. Ricordo le parole di mio padre che vide arrivare un treno in pieno inverno con il riscaldamento guasto. Una donna stava allattando il proprio figlio ed aveva il seno viola. Obbligò i ferrovieri svizzeri a cambiare non solo il locomotore come da prassi ma pure il vagone. Per il restante viaggio tutti godettero del tepore e di bevande calde, dal latte al the. Era imbufalito dalla disumanità talmente superficiale da far andare a fondo la sua pazienza e creare problemi con la dirigenza ferroviaria svizzera per il ritardo. All'epoca le persone venivano premiate con un "Bravo" erano sostenute in queste scelte, oggi il ritardo supererebbe di gran lunga le logiche umane di sopravvivenza. Mio padre ora esagera con l'aglio ma la vita sa benissimo che sapore debba avere e come cuoco ha preparato ottimi momenti culinari, il cibo dell'anima lui lo conosce bene! Quel seno viola mi ha sempre impressionato, come si potesse guardarlo senza provare nulla, ne pietà ne orrore. Fino a quando è sceso su quella donna lo sguardo di chi vedeva delle persone e non bestie da soma davanti a lui!
Ci sono frammenti della coscienza che come schegge fuoriescono dal nostro essere durante un movimento improvviso della vita. Non sappiamo come siano riusciti a sopravvivere e dove, come si siano nutriti e idratati, da qualche parte erano e tornano quando meno te lo aspetti. Una prova fisica, una malattia, un evento inaspettato, un'emozione devastante, smuove queste schegge ed eccole, ne scorgi la punta, senti la consistenza di quello che hai provato ed il tutto si fonde con quello che stai provando. E' questa la memoria? E' questo il miracolo dell'esperienza o solo fortuna! Non sembrano cassetti da aprire i frammenti della memoria, ma corpi estranei che un energia fa emergere dalle profondità del nostro essere, come una risonanza magnetica smuove un proiettile conficcato in qualche parte del nostro corpo. Spesso è indolore questa fuoriuscita improvvisa, altre volte toglie il fiato ma il dolore è, pur intenso, di breve durata. Quello che non si può prevedere è la sua comparsa, come un terremoto o un'eruzione vulcanica. Qualche segnale si avverte ma non è catalogabile ne ha rilevanza scientifica od umanamente plausibile. L'istinto dovrebbe aiutarci ma anche quello spesso è assonnato e si distrae facilmente. C'è un senso, lo chiamano il sesto, che pare aiuti in questi casi ma, provoca delle perturbazioni non osservabili e quindi se non si usa la propria attenzione come un laser, con precisione e con perizia da chirurgo oculistico, non aiuta neppure quello. C'è un solo mezzo a nostra disposizione che viene in nostro aiuto: l'istinto di sopravvivenza! Si sopravvive a dolori che si ritiene devastanti, irreparabili, si sopravvive quasi sconcertati dalla forza del nostro corpo e del nostro essere a resistere ad un simile urto! Investiti e spazzati via da una delusione o da un tradimento, con una minima probabilità di avere abbastanza fiato per non affogare, da una simile esondazione si riesce a tornare a galla, perfino a nuotare, scansando macerie e contribuendo con il movimento di gambe e braccia scorticate a raggiungere quella riva aiutati da correnti sconosciute ed incredibilmente forti. Quelle schegge sono come salvagenti oppure ci affondano del tutto, dipende dall'uso che ne facciamo, ed in pochi attimi dobbiamo decidere che uso farne! Affascinante e terribile allo stesso tempo!

mercoledì 2 maggio 2012

La coscienza

. La coscienza è sempre stata un grande mistero della vita e dell'universo. Tutti la sperimentiamo ma non sappiamo definirla. Come fa il cervello a raccogliere dati grezzi sul mondo e a trasformarli nella sensazione di essere vivi? Purtroppo finora nemmeno le tecnologia più sviluppate per studiare il cervello sono riuscite a rivelarci dov'è la sede della coscienza. Le sue alterazioni non si verificano solo sotto anestesia ma anche quando ci addormentiamo o ci danno un colpo in testa. L'anestesia però permette ai neuroscienziati di manipolare la nostra coscienza senza farci correre rischi, in modo reversibile e con estrema precisione. Anche se il loro lavoro non riceve tanta attenzione come quello dei chirurghi, gli anestesisti hanno l'importante compito di tenerci in bilico tra la vita e la morte. Spesso si pensa che lo stato di coscienza sia qualcosa di ben definito: o siamo svegli o no. Tuttavia esistono vari livelli di anestesia. Addormentare una persona non è come spingere un interruttore, è più come regolare la potenza di una luce. Di solito all'inizio il paziente prova una sensazione simile all'ubriacatezza, che a volte ricorda quando si risveglia. Poi arriva la perdita di coscienza, cui corrisponde l'incapacità di rispondere ai comandi. Man mano che ci si addentra in questa zona d'ombra, il paziente non reagisce più alla penetrazione dell'elettrobisturi nella carne e , ai livelli più profondi, può aver bisogno dell'aiuto di un respiratore artificiale. Cosa succede al cervello durante la somministrazione degli anestetici? Con l'affievolirsi della coscienza si verifica una perdita di sincronismo tra le diverse zone della corteccia cerebrale, cioè nello strato più esterno del cervello che è collegato all'attenzione, alla consapevolezza, al pensiero e alla memoria. Durante l'anestesia quando il paziente passa dallo stato di veglia a una leggera sedazione e infine non reagisce più, succede che piccole isole della corteccia cerebrale si attivano in risposta agli stimoli esterni ma questa attività non si diffonde ad altre aree come accade durante la veglia od una leggera sedazione. Cosa significa? Vuol dire che a livelli di anestesia più profondi la comunicazione a distanza degli stimoli elettrici al cervello viene bloccata, è come se il messaggio fosse recapitato nella cassetta della posta ma nessuno lo raccogliesse. Cosa provoca questo blocco? I farmaci non si limitano a spegnere tutto, modificano la comunicazione che è come un sistema di andata e di ritorno dei messaggi. Ecco i segnali di ritorno vanno perduti durante l'anestesia. L'anestesia è un coma indotto farmacologicamente, durante questo processo si verifica lo stesso blocco dello spazio di lavoro globale del cervello che avviene nelle persone in coma profondo. Studiando meglio l'anestesia potremo capire meglio il coma e lo stato di coscienza sia nelle persone sane che malate. In sala operatoria mentre si dorme qualcuno apre il nostro corpo e non si ricorda nulla di tutto ciò. Per un po' di tempo quell'io non è esistito. Senza sapere esattamente come fanno ogni anno gli anestesisti portano centinaia di milioni di persone sull'orlo dell'abisso senza farle morire, o quasi! E poi le riportano indietro sane e salve, quasi sempre! Dante Alighieri avesse saputo quello che stiamo studiando noi della coscienza umana avrebbe scritto un'altra Divina Commedia?! Per realizzare dei grandi sogni bisogna sempre sognare in grande. Osate, osate sempre sosteneva Leonardo Da Vinci. Il primo ad eseguire un'operazione in anestesia generale fu un chirurgo giapponese nel 1804 usando una miscela di erbe potentissima. In Occidente il primo intervento del genere avvenne nel 1846 al Massachussetts General Hospital di Boston negli Stati Uniti. Il paziente fu addormentato con una bottiglietta di etere sotto il naso. Da allora sono state usate varie sostanze chimiche, alcune come l'etere dovevano essere inalate, altre iniettate. Quello che affascina veramente non è solo la possibilità di intervenire all'interno del nostro corpo per guarire da una malattia senza provare dolore ma, è l'interruzione della coscienza quello che colpisce di più. Chi ha provato il risveglio da un intervento operatorio in anestesia generale sa cosa significa. Si rientra nel mondo dall'oblio più totale, sembrano passati pochi secondi invece a volte trascorrono ore ed ore. Si fa fatica ad aprire gli occhi, a parlare, a muoversi, si sente con l'udito ma certi comandi al cervello non ottengono risposta immediata e ci vogliono ore per riprendere il controllo dei nostri movimenti e delle nostre facoltà sensoriali, il loro utilizzo. Un ritorno da quello che alcuni chiamano il nulla, altri l'oblio, altri ancora l'incoscienza, altri un sogno.........il ritorno non è certo ma se avviene ha il sapore di una rinascita!
Ieri sera, pioggia a catinelle! E' sicuramente una descrizione riduttiva del fenomeno, più che catini si trattava di botti gigantesche che si rovesciavano dal cielo. Getti da idrante che espolodevano con il contatto a terra, la grondaia ed il tubo che raggiunge il pavimento vicini alla deflagrazione per la pressione dell'acqua al loro interno. Forse tutto a causa di foglie autunnali e detriti ancora da rimuovere che ostacolano il flusso, ed io con un ombrello che rimbomba come fosse un tamburo a cercare di dirigere il getto verso il giardino e non contro le mura maestre della casa. Mi sono sentita stupida e con scarso senso pratico, mi veniva da ridere ed ero al contempo preoccupata, bagnata e se qualcuno mi avesse accennato che "Ballando sotto la pioggia" è un film romantico avrei chiuso l'ombrello per inseguirlo con bruttissime intenzioni, tutt'altro che romantiche. Poi quel diluvio è cessato all'improvviso, da un momento all'altro il silenzio e lo sciabordia dell'acqua nei canali di scolo. Il fiume presso casa gonfio e fortunatamente con una corrente tumultuosa ma veloce che trasportava il carico di pioggia e di acque provenienti da altri affluenti con una grazia ed una potenza infinitamente maggiori della mia, animale terreno poco avezzo alle grondaie ed ai diluvi. Questa mattina uno stiramento al braccio, tendinite, me la sono proprio cercata, ed il bosco del parco del Ticino di un verde smaltato e brillante da abbagliare. Il fiume ancora alto e vicino alla riva ed all'approdo delle barche, le strade lucide, le pozzanghere enormi a riflettere un cielo sia grigio che azzurro. Quando usano la terminologia "tempo variabile" forse non sanno che la sintesi spesso riduce e comprime eventi interminabili quando si attraversano con il corpo. La mente cerca di minimizzare l'accaduto con uno schema precostituito ma l'ironia abita anche tra i neuroni e non solo l'anima! Le coperte questa notte mi sembravano insufficienti per scaldare le ossa e la pelle ancora bagnate ed intirizzite dal freddo. Ci si cambia di abito ma rimane sempre la sensazione di essere inzuppati fino a quando il sonno non vince ed i muscoli si lasciano avvolgere dal riposo. Muscoli e nervi che di tanto in tanto strattonano ancora le gambe e le braccia indolenzite. Mancava l'acqua dal cielo da troppo tempo, la terra ne aveva bisogno, io mi sono ubriacata d'acqua insieme alla terra su cui cammino!

martedì 1 maggio 2012

Ci sono giorni, ore, istanti che si dilatano all'infinito. Ci sono momenti da mettere insieme, ricucire, fili da riannodare, parole da far scivolare su fogli bianchi, ci sono idee finalmente chiare, altre più sfumate che cercano la luce. Ci sono giorni in cui vorrei non smettere di restare sveglia per continuare a pensare ed a far fluire le connessioni che danno un senso a quello che ho visto, che vedo, che vedrò! Ci sono giorni piovosi come questo in qui il cielo grigio fa da contralatare alla luminosità dell'essere vivi! Ci sono momenti in cui tutto è chiaro, talmente chiaro che perfino le parole ti ridono in faccia e ti consigliano la sintesi. Perchè la verità è semplice e non ha bisogno di molte parole. Ci sono giorni come questo in cui si vorrebbe essere circondati da un cielo terso ed invece piove e grandina, il vento smuove le grondaie, scricchiolano i muri imbevuti di pioggia, il tendone sul terrazzo si lacera. Esco ed apro l'ombrello per vedermelo strappato via con forza, salvo i gatti randagi ospitandoli dentro casa, sono nervosi ed io li osservo muoversi con la coda dritta simile ad un'antenna. Poi il silenzio, la tromba d'aria sembra allontanarsi o diminuire di intensità, i gatti si accomodano sul divano e si leccano l'un l'altro, non vogliono uscire, cercano tepore e sono più tranquilli. Quando tutto sembra avvolgersi in un cumulo di macerie ecco improvvisamente quella calma che non precede solo la tempesta ma le fa un inchino dopo che se ne è uscita dalle nostre case e dalle nostre vite! I gatti ora dormono o fingono di dormire, hanno le orecchie dritte ed il corpo mollemente abbandonato fra i cuscini. Temono che li mandi via ora che non piove più, mi girano il sedere mentre esco dalla stanza. Ora mi conoscono un po' di più ed io loro!
Ho rivisto la scena della nebbia nel film "Amarcord". Il nonno che si perde fuori dal cancello, che gli sembra di non stare in nessun posto, che non sente più nulla, sparito tutto, la gente, gli alberi, il vino. Non trova più la sua casa e solo un amico che passa con un carretto trainato da cavalli lo riporta alla sua casa, vicinissima. Non vedeva quella nebbia dal 1922, una nebbia bianca, fitta, palpabilissima, che ti lascia le gocce sulla pelle, un aerosol di aria ed acqua profumata di mare. Io ne ricordo una simile ma in montagna, in pieno luglio. Al mattino una nebbia che ho fotografato simile a quella autunnale, la stagione si percepiva dai colori dellìerba presso il sentiero, dal verde degli alberi, un verde brillante che la nebbia non stingeva. Di pomeriggio è tornato il sole estivo e quasi ero dispiaciuta per quel silenzio ovattato che se ne era andato via. Perfino gli uccelli tacevano e solo qualche ramo spezzato o il terriccio sotto i piedi che scricchiolava erano i suoni percepiti. Si camminava a passo lento senza fretta, in religioso silenzio. Ci sono momenti condivisi con la natura che ti circonda che paiono sacri anche a chi non crede in un qualsiasi Dio! Per chi ci crede è come pregare mentre si cammina o si respira, il vissuto percepito presso certi luoghi diventa qualcosa da proteggere dalle battute o da un sorriso, un caro ricordo simile ad un fuoco da tenere acceso, braci da conservare. Penso all'Eremo delle Carceri ad Assisi, a Santiago de Compostela all'entrata nella cattedrale o lungo il cammino, nei boschi e lungo strade percorse da pellegrini provenienti da ogni luogo e tempo! Poi ci sono i boschi di montagna, quelli di larici e pietre, di pini e macchie di rododendri, ci sono i percorsi segnati dalla memoria, con mio nonno che mi insegnava i nomi dei fiori e delle piante.....quello che di sacro la vita dona alla memoria, attimi od ore che entrano nel sangue e sono come unguenti miracolosi quando l'anima ne richiede l'intervento.
Ho usato dello stucco per chiudere dei fori presso le travi di legno del soffitto. Piccoli fori da cui fuoriuscivano delle formiche. Anche in prossimità del giardino fra piastrelle e tubature, piccole intersezioni lasciate libere dal ghiaccio che ha spaccato e sbriciolato il collante che le teneva unite, stucco a volontà. Certo che chi ha avuto l'idea di usare delle piastrelle in una zona dove il clima è umido e con il fiume a poche decine di metri che si insinua sotto terra fino a gonfiare i pavimenti del piano terra. Non è vero quel che si legge - uso foresteria - se non per pochi abitanti della zona, dato che il resto della popolazione che vive lungo la riva del Ticino affitta locali malsani a studenti universitari provenineti da ogni regione d'Italia che nulla sanno dell'autunno e del fiume. Possibili esondazioni ed infiltrazioni di ogni tipo fino fanno trasudare le mura d'acqua e trasformano la pavimentazione in onde. Mentre mi soffermavo a guardare l'effetto del mio lavoro, schizzi bianchi sparsi ovunque, un muratore suppongo che rimarrebbe inorridito, ho immaginato se le ferite si potessero guarire non con ago e filo, disinfettanti e garze, bende elastiche che proteggono la medicazione......ed altro ancora! Ci vorrebbe un impasto miracoloso come quello usato dagli indiani dell'America del Nord, composto da argilla ed una polvere, una muffa, antibiotici naturali, che cicatrizzava e guariva ferite importanti procurate da una caduta, da una guerra, da una battuta di caccia.....ancora più portentoso, come lo stucco! Per il corpo ci sono ora molte tecniche a disposizione per togliere i segni di una ferita, chirurgia estetica per ricostruire un viso, una parte del corpo ustionata, non per bellezza ma per riportare un corpo alla perduta integrità. Da un coltura di cellule della pelle si ottiene tessuto epiteliale che viene posizionato sulla parte ustionata ed è compatibile con il corpo da cui è stato prelevato il campione da riprodurre. E l'anima?! Quella come si medica? Ci sono forse pomate, unguenti miracolosi, fili di sutura assorbibili, colture miracolose, protesi personalizzate e leggerissime....?! Niente di tutto ciò. Si può curare con la parola, con i farmaci, con le preghiere, con il silenzio e la meditazione, con il lavoro forsennato, con l'oblio, alcuni scelgono la musica, altri i fiori, altri ancora droghe di tutti i tipi.........non esiste stucco per chiudere i fori, tessuti per coprire le lacerazioni, abili ricamatrici per nascondere strappi. Ognuno deve improvvisarsi muratore o chirurgo, sarto o sciamano, e dare alla propria anima una parvenza di luminosità che nulla ha a che vedere con l'estetica. Riaccendere la luce ecco alla fine quello che bisogna imparare a fare, che sia fioca o brillante, diretta o indiretta, poco importa. Riaccendere quella luce diventa l'unico modo possibile per non farsi inghiottire dal buio e dalle ombre che gli occhi dell'anima sanno scorgere con abilità e maestria, avvezza più ai dettagli che allo sguardo d'insieme.