Scende la sera, immobili sono i prati. Il gorgogliare del ruscello assetato silente tutto il giorno si leva di nuovo. Abbandonata è la quasi falciata pianura, silenziose le stoppie..........E lontano sul puro orizzonte vedi pulsante per la prima stella il liquido cielo sopra la collina.

venerdì 28 gennaio 2011

Poesia, pagine tratte dalla Bibbia opera letteraria oltre che religiosa




C'È UN TEMPO PER OGNI COSA (QO 3,1-15)



Priotto M.

Quella che Qohelet ci offre in questo brano è una stupenda meditazione poetica sul tempo dell’uomo, su questo mistero che accompagna l’esistenza umana dal suo primo apparire nel mondo fino alla morte. In questa rassegna, sfilano i tempi dell’uomo con un ritmo implacabile e inarrestabile, ma anche monotono e apparentemente predeterminato; eppure su di essi si leva la domanda radicale di senso da parte del nostro saggio, portavoce di un’umanità inquieta e in cerca di senso. Una pagina dunque di straordinaria potenza, quanto mai moderna, che ci interroga e interpella[1].



Contesto e struttura del testo

I primi quindici versetti del c. 3 costituiscono una chiara unità letteraria, preceduta da una breve riflessione sulla gioia, la prima che troviamo nel libro (2,24-26), e seguita da una considerazione sull’ingiustizia e sulla sorte degli uomini, comune a quella delle bestie (3,16-22). Nel contesto della prima parte del libro (1,2-3,15) il nostro passo costituisce la conclusione che giunge dopo l’introduzione (1,1-2), il poema sulla natura e sull’uomo (1,4-11) e la lunga sezione regale (1,12-2,26).

L’unità che vogliamo studiare, Qo 3,1-15, è a sua volta chiaramente articolata in due sezioni: il poema di 3,1-9 e la riflessione di 3,10-15. La forma del primo gli conferisce una caratteristica e un’autonomia propria, inconfondibile; la riflessione seguente (vv. 10-15) è tuttavia strettamente congiunta, in quanto ne è il commento.



Il poema del tempo (3,1-9)

L’articolazione del poema è semplice: il v. 1 introduce il tema del tempo dell’uomo, che viene illustrato nei vv. 2-8; la domanda del v. 9 costituisce la conclusione del poema e introduce allo stesso tempo la riflessione seguente dei vv. 10-15.§

Il poema vero e proprio (vv. 2-8) è costituito da quattordici antitesi o, se si vuole, da sette coppie di antitesi che intendono abbracciare idealmente fin dalla prima battuta tutta l’esistenza dell’uomo, dalla nascita alla morte, e le esperienze più significative della vita, sia positive che negative. È evidente il valore simbolico del numero 7, e dei suoi multipli 14 e 28. Questa totalità dell’esistenza è vista sotto il profilo del tempo, il cui termine (in ebraico ‘et) ricorre significativamente ventotto volte, due volte per ogni antitesi; è l’insieme di questi tempi che costituisce la totalità dell’esistenza umana. Lo schema non è così rigido, come potrebbe sembrare a prima vista, ma il simbolismo del numero 7, coi suoi multipli 14 e 28, e del numero 4 (4 x 7 = 28) conferisce al poema una sensazione di pienezza, di totalità, di ordine e di perfezione[2].



C’è un tempo per ogni cosa

Per ogni cosa c’è il suo momento,

il suo tempo per ogni faccenda sotto il sole (Qo 3,1)

Questo versetto introduttivo espone la tesi dell’intero poema, sottolineando in particolare tre aspetti: l’idea del tempo, l’idea del tutto e l’ambito della riflessione di Qohelet. Il termine «momento» (in ebraico zeman) è praticamente sinonimo del secondo termine «tempo» (‘et) e quest’ultimo non significa il tempo indeterminato e duraturo, bensì un tempo determinato, adatto e opportuno per qualche cosa. Si tratta di un vocabolo molto amato dal nostro saggio, che lo usa infatti per ben quaranta volte nel suo libretto.

La duplice ripetizione «ogni cosa» e «ogni faccenda» indica che nulla si sottrae a questa constatazione; anche se l’elenco seguente non è esaustivo, per ogni evenienza della vita, positiva o negativa, c’è un tempo favorevole e opportuno.

È importante però sottolineare che questa totalità è intesa nel contesto di un ambito ben preciso: «Sotto il sole». È questa un’espressione caratteristica di Qohelet per indicare l’ambito vitale dell’uomo su questa terra; indica, infatti, sia lo spazio geografico della terra in cui l’uomo abita, sia lo spazio temporale della vita umana[3]. Dunque l’ambito di indagine di Qohelet è questa terra e questa storia, cioè l’orizzonte terreno. E sopra il sole? Il saggio non si pone per il momento una tale domanda.

Che vi sia per ogni cosa ed evenienza un tempo opportuno è un pensiero noto alla cultura del mondo antico, sia mediorientale che greca[4]; così anche nella tradizione d’Israele esso rappresenta una convinzione sicura (cf. Gb 5,26; Ger 8,7; Pr 15,23; Is 28,23-29). Qohelet apparentemente riprende questa tradizione per condividerla, in realtà per criticarla, come apparirà dai vv. 10-15.

I tempi dell’uomo

Non pare che ci sia un ordine preciso in questo elenco di attività, ad eccezione forse delle due coppie di inizio e di conclusione; né l’elenco è esauriente. Il saggio intende piuttosto offrire esempi significativi di situazioni esistenziali per evidenziare che esistono momenti opportuni per ogni cosa.



2 C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.

3 Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

4 Un tempo per piangere e un tempo per ridere,

un tempo per gemere e un tempo per ballare.

5 Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,

un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

6 Un tempo per cercare e un tempo per perdere,

un tempo per serbare e un tempo per buttar via.

7 Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,

un tempo per tacere e un tempo per parlare.

8 Un tempo per amare e un tempo per odiare,

un tempo per la guerra e un tempo per la pace (Qo 3,2-8).

La prima coppia è significativa per la sua valenza totalizzante, abbraccia infatti le estremità della vita, dal suo apparire alla sua scomparsa: c’è un tempo per generare[5] e un tempo per morire. È questo il significato della coppia, non tanto un’antitesi tra vita e morte, quanto piuttosto la sottolineatura dell’ambito dell’esistenza umana. L’uomo può interpretare la generazione e la morte come antitetiche; Qohelet si limita a osservare che due momenti significativi aprono e chiudono la vita. In senso metaforico l’attività del piantare e dello sradicare una pianta richiama ancora quanto detto a proposito del generare e del morire. Non tutti i tempi sono validi, perché vita e morte sfuggono a logiche deterministiche.

Dall’ambiente idilliaco e rurale l’autore passa bruscamente al dramma di una storia percorsa dalla violenza sulle persone; l’ombra di Caino si allunga sino ai giorni nostri, confrontandoci con tempi di distruzione e di morte. Qohelet non è pessimista, ma prende atto di una realtà, che tuttavia accanto alla distruzione offre anche la testimonianza della cura del ferito e della sua guarigione. Questa antitesi fra uccisione e guarigione divide gli uomini e i tempi, ma è interna anche a una stessa esistenza, perché a volte l’uomo che uccide e ferisce è anche colui che cura le ferite e guarisce. In coppia con la precedente antitesi si colloca l’immagine seguente del demolire e del costruire. Se la guerra comporta distruzione, l’impegno di guarigione evidenzia la ricostruzione.

Le lacrime e il riso, il lamento e la danza, definiscono i giorni dell’uomo, che in tal modo manifesta esteriormente la sua vita interiore caratterizzata dalla gioia e dalla sofferenza. Non esiste una vita soltanto felice o soltanto triste. Perché avvenga così, sfugge all’uomo; per adesso Qohelet si limita a constatare.

L’interpretazione del v. 5a («Un tempo per gettar sassi, un tempo per raccoglierli») è molto controversa. Riteniamo che il significato più naturale sia quello relativo al lavoro dei campi: il gettare i sassi evocherebbe il gesto ostile di chi vuol inaridire il campo di un nemico scaricandovi pietrisco (cf. 2Re 3,19); il raccogliere i sassi alluderebbe invece al paziente lavoro del contadino che, per poterlo coltivare, ripulisce il campo (o la vigna) dalle pietre, magari costruendo con esse un muretto di recinzione.

Ed eccoci a due gesti molto significativi nell’esperienza dell’uomo: l’abbracciare e l’astenersi dall’abbraccio. Si tratta dell’atto coniugale, ma anche di tutto ciò che lo prepara o distrugge, e delle relazioni umane improntate alla comunione o alla solitudine. È il mistero dell’amore che sorge e unisce le persone, ma che può anche spegnersi e dividere irrimediabilmente. Cercare e perdere, serbare e buttar via, appartengono alla trama della vita dell’uomo, con tempi propri. Ma sa l’uomo scegliere sempre i tempi giusti? Stracciare e cucire non si riferiscono semplicemente alla vita domestica, ma possono anche alludere al lutto a alla disgrazia (cf. Gn 37,29. 34; 2Sam 13,31). Il tacere e il parlare trascendono l’ambito familiare, dove tuttavia sono essenziali, per definire in generale l’uomo saggio che sa usare correttamente del dono della parola (cf., ad esempio, Pr 15,23; 26,4-5).

Le ultime due coppie sono disposte in ordine chiastico: amare-odiare, guerra-pace. Al centro ci sono i due elementi negativi: che l’uomo sia condannato alla violenza? Va aggiunto, però, che questa disposizione permette di chiudere tutta la serie dei tempi dell’uomo sulla pace, termine molto evocativo della speranza messianica. Amore e odio costituiscono gli estremi della scelta esistenziale dell’uomo, che sfociano a livello di storia rispettivamente nella pace e nella guerra. Pur attraverso le avversità e contraddizioni (sono gli elementi negativi della serie), esiste un movimento positivo nella storia dell’uomo che va dalla nascita (v. 2a) alla pace (v. 8b), oppure si tratta di un senso irraggiungibile per l’uomo?

Quale profitto?

La domanda del v. 9 riprende quella iniziale di 1,3 ed è rivolta più specificatamente a «colui che si affatica», cioè all’uomo preoccupato soltanto del profitto:

Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica? (Qo 3,9).

Qohelet entra in dialogo critico con la sapienza tradizionale, che è convinta non solo dell’esistenza di un tempo opportuno per ogni cosa, ma anche e soprattutto della possibilità per l’uomo saggio di conoscere questo tempo opportuno e dunque di padroneggiare la vita. Di fronte a questo atteggiamento che, con un termine difficile, potremmo definire «ottimismo epistemologico», il nostro autore è critico; non solo perché è consapevole dei limiti della conoscenza umana (cf. 1,12-18) ma anche perché sa che una vita impostata sulla ricerca di una felicità frutto delle proprie fatiche non conduce ad alcun reale profitto (cf. 2,1-26)!

Tuttavia questa non è l’unica impostazione della vita! Non esiste soltanto l’homo oeconomicus! Ed ecco allora che la ricerca del nostro saggio può continuare esplorando l’ambito della fede, cioè l’ambito della relazione con Dio, e inoltre quelle realtà che restano all’uomo a prescindere dalla ricerca esclusiva del profitto economico. Nasce così la riflessione seguente contenuta nei vv. 10-15.

Il significato del tempo dell’uomo (3,10-15)

Non è rilevante stabilire se il poema del tempo sia stato un poema indipendente, anteriore al Qohelet e da lui utilizzato, perché in ogni caso è nell’attuale contesto della riflessione qoheletiana che esso va interpretato. L’epoca contemporanea conosce un interesse notevole circa il problema del tempo, sia nel mondo greco che in quello giudaico. Il nostro saggio non considera globalmente il concetto di tempo inteso come durata, bensì il tempo nelle sue determinazioni storiche particolari, cioè nei suoi singoli momenti di vita. Rifuggendo da speculazioni escatologiche o apocalittiche, osserva questi momenti dell’esistenza e constata che essi sono guidati da Dio, ma secondo una logica che sfugge alla comprensione dell’uomo.

Per ben sei volte nei vv. 10-14 compare il termine «Dio» (vv. 10.11.13.14, qui due volte, v. 15); si tratta della più alta concentrazione di espressioni relative a Dio di tutto il libro, segno evidente che il punto di vista da cui Qohelet si pone è quello teologico. È alla luce di Dio che il saggio ebreo cerca di leggere il mistero insondabile e apparentemente contraddittorio dei tempi dell’uomo. Con ciò Qohelet continua e approfondisce la precedente riflessione di 1,13-18, dove afferma la validità della ricerca sapienziale, ma anche i limiti laddove essa pretenda di dare all’uomo risposte esaurienti. Proprio per questo esplora ora l’ambito teologico.

L’unità è articolata in tre momenti: vv. 10-11; 12-13; 14-15, introdotti da un verbo di osservazione in prima persona, caratteristico dello stile di Qohelet: «Ho considerato», «so che», ancora «so che». La disposizione è chiastica: l’opera di Dio (vv. 10-11) – l’invito alla gioia (vv. 12-13) – l’opera di Dio.

Il mistero del tempo

10 Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini, perché si occupino in essa. 11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine (Qo 3,10-11).

Nel testo ebraico al v. 11 compare un termine ebraico di difficile interpretazione: ‘ôlam, di fronte al quale le interpretazioni degli esegeti si sono moltiplicate[6]. È nell’ambito temporale che il termine va considerato; così vuole il contesto della pericope 3,1-15 e anche l’uso corrente di questo termine sia in Qohelet sia nella Bibbia ebraica. Il concetto di eternità è estraneo alla riflessione qoheletiana, sia nel senso metafisico di un tempo senza fine sia nel senso religioso di una vita oltre la morte. Se c’è un tempo opportuno per ogni cosa, c’è pure un tempo costituito dalla somma di tutti questi tempi determinati; da parte di Dio esso rivela un senso di coerenza, da parte dell’uomo invece rimane incomprensibile e misterioso. Seguendo Mazzinghi possiamo perciò interpretare l’espressione ‘ôlam con «il mistero del tempo».

La seconda parte del v. 11 è introdotta da una particella (in ebraico gam) da intendersi non in senso avversativo («ma», come la traduzione della CEI), bensì aggiuntivo: «Anche». Dunque la traduzione suona meglio così:

«Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; ha posto anche nel loro cuore il mistero del tempo, senza però che gli uomini riescano a capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qo 3,11).

L’angolatura da cui si pone Qohelet è sempre la stessa, quella esperienziale, sotto il sole. Il compito di cercare e di investigare non è soltanto proprio del saggio ebreo (cf. 1,13-18), ma di ogni uomo. Alla domanda del v. 9, «che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?», Dio risponde assegnando agli uomini un compito preciso: cercare! Si tratta certo di un compito faticoso, tuttavia non è più qualificato come «penoso» (cf. 1,13); il senso di questo compito viene specificato dal v. 11.

La riflessione inizia con un giudizio estremamente positivo dell’opera creatrice di Dio. Qohelet rilegge il primo racconto della creazione interpretando il termine tôb («E Dio vide che era buono-bello») di Gn 1 come yapeh («bello»); quest’ultimo termine sottolinea di più la qualità estetica del creato, ma non in senso esclusivo – come dimostra la ricorrenza del termine in 5,17 – dove esso significa piuttosto «conveniente». Dunque Dio ha creato un mondo bello, ma anche conforme al suo volere; e infatti proprio per questo ogni cosa ha il suo tempo opportuno, secondo quanto Qohelet ha illustrato nel poema precedente (3,1-8).

Tuttavia l’uomo, pur avendo ricevuto nel cuore il mistero del tempo, non è capace di comprendere la logica e il senso di questo tempo; l’uomo può solo vivere i singoli momenti opportuni che gli si presentano. La conseguenza di tale imperscrutabilità dell’opera divina non diventa per Qohelet causa di disperazione e di pessimismo o fonte di scetticismo, ma invito all’uomo a scrutare e a vivere i singoli momenti di gioia che la vita gli offre. Se questo mistero del tempo che Dio gli ha infuso nel cuore non sfocia nella comprensione dell’opera divina, non costituisce nell’uomo un dato negativo e frustrante, esso infatti lo spinge alla ricerca delle possibilità di gioia che la vita offre e soprattutto al timore di Dio. È quanto Qohelet sviluppa nei versetti seguenti.

La gioia di vivere

12 Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; 13 ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio (Qo 3,12-13).

L’affermazione del v. 12 sulla positività del mangiare e del bere per l’uomo è ancora in relazione alla domanda del v. 9: quale profitto c’è per l’uomo? Non si tratta però di una risposta riduttiva, quasi una povera consolazione lasciata da Dio a un uomo comunque incapace di comprendere il senso dell’esistenza. La formula: «Non c’è nulla di meglio», compare altre volte nell’opera (2,24; 3,22; 8,15) sempre in connessione con un precedente sviluppo negativo (nel nostro caso l’impossibilità per l’uomo di capire a fondo l’opera di Dio) e dunque si propone di evidenziare un bene reale per l’uomo. Due verbi sottolineano questo bene: «godere» e «vivere bene»[7]; essi appaiono come compito dell’uomo: se Dio ha fatto bella e conveniente ogni cosa, l’uomo è chiamato a sperimentare questo bene nella propria vita, cioè a gioire.

In che cosa consista questa gioia viene specificato subito dopo dall’espressione «mangiare e bere» tipica di Qohelet (2,14; 5,17; 8,15; 9,7). La forza dell’espressione è nel suo significato simbolico; si tratta infatti non soltanto di necessità elementari dell’essere umano, ma della celebrazione di sentimenti profondi quali la festa, l’amicizia, il matrimonio, la nascita, l’ospitalità... Mangiare e bere appaiono così come i segni visibili della benedizione divina, essi infatti sono dono di Dio! Se il Dio di Qohelet appare da un lato lontano e irraggiungibile, dall’altro si rende presente in modo molto concreto e reale col dono della gioia del vivere. Questo richiamo al dono di Dio è importante perché esclude interpretazioni di carattere edonistico o epicureo e aggancia saldamente la fede alla vita concreta dell’uomo.

Il timore di Dio

Quest’ultima riflessione approfondisce il senso del timore di Dio sopra accennato. Le opere di Dio sono immutabili, cioè valgono per sempre, per tutto quel tempo di cui l’uomo intuisce l’esistenza, ma non il senso. Dunque, se Dio dona all’uomo le gioie della vita, non può quest’ultimo modificarle, magari accrescerle o intensificarle, perché la loro esistenza e qualità dipendono unicamente da Dio, la cui azione rimane immutabile.

14 Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché si abbia timore di lui. 15 Ciò che è, già è stato; ciò che sarà, già è; Dio ricerca ciò che è già passato (Qo 3,14-15).

Dio agisce così perché lo si tema, dove «temere» significa anzitutto riconoscere e accettare l’imperscrutabilità dell’agire divino. Chiaramente viene qui sottolineata la distanza trascendentale fra Dio e l’uomo, fra creatore e creatura. Tuttavia non c’è solo questo, perché questo Dio sa essere anche vicino all’uomo con il dono delle gioie della vita. Queste potrebbero essere intese in un ambito puramente antropologico (sarebbe allora la logica del carpe diem) o nel senso prometeico di strappare qualcosa a Dio. Invece nell’ottica di una fede che riconosce unicamente a Dio la comprensione del suo agire e quindi l’incomprensibilità per l’uomo del mistero del tempo, le gioie della vita appaiono nel loro vero significato di dono gratuito di Dio. Se il timore di Dio sottolinea con crudele chiarezza i limiti creaturali dell’uomo, gli consente pure di cogliere le gioie della vita nel loro ontologico significato di dono gratuito di Dio!

La conclusione del v. 15 è misteriosa, soprattutto l’ultima frase: «Dio ricerca ciò che è già passato». Le proposte degli autori sono numerose e discordanti[8]. Il contesto immediato della prima parte del versetto, come quello più generale dell’intero passo di 3,1-15, suggerisce di interpretare l’espressione in senso temporale: Dio ricerca «ciò che è inseguito», cioè il tempo passato, che non può più essere ricuperato dall’uomo e tanto meno compreso. Questo appartiene a Dio, per il quale soltanto esiste una chiara comprensione di tutto il mistero del tempo. «Dio non è soggetto alla caducità del tempo, lo supera e lo raggiunge in tutta la sua estensione passata e futura; ecco perché poter dire che Dio va in cerca del passato non è strano. Secondo la mentalità di Qohelet, Dio lo trova o lo raggiunge, l’uomo no»[9].

Conclusione

Il poema dei tempi dell’uomo (vv. 2-8) aveva suscitato la domanda del v. 9: quale profitto per l’uomo?. Questa domanda trova la sua risposta nella riflessione dei vv. 10-15, una delle riflessioni più teologiche dell’intero libro.

Chi è Dio? Apparentemente il Dio di Qohelet è un Dio lontano da quel yhwh che entra nella storia di Israele, un Dio impenetrabile e anche arbitrario. In realtà, un’attenta lettura del testo qoheletiano ci porta a conclusioni opposte. L’uomo sa che ci sono tempi convenienti per ogni azione, sa che esiste un mistero del tempo, che Dio gli ha consegnato nel cuore, ma che gli rimane incomprensibile nella sua logica di fondo, perché questa comprensione è esclusiva di Dio. Da questo punto di vista non c’è alcun profitto per l’uomo nel suo agire.

Tuttavia, tocca all’uomo il compito di cercare e in questo suo compito egli arriva a capire due cose: nonostante tutto la gioia resta una possibilità reale che Dio gli offre, le gioie della vita infatti sono dono di Dio e invito a goderne. In secondo luogo, l’uomo capisce che l’azione di Dio, pur misteriosa e incomprensibile, suscita in lui il timore di Dio; è questo timore di Dio che permette all’uomo di autocomprendersi come creatura e di giudicare le gioie della vita unicamente come dono di Dio. È volontà di Dio che l’uomo scopra e goda la gioia, ma nessuna gioia è possibile e vera senza il timore di lui, senza il rispetto di quel mistero del tempo che Dio ha posto nel cuore dell’uomo proprio perché egli lo tema.

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